Prima di bruciare vivo il geniale e profondo Vanini, gli strapparono la lingua, perché egli, con essa, aveva bestemmiato Dio. Confesso che, quando leggo simili cose, mi vien voglia di bestemmiare questo Dio.
Arthur Schopenhauer

martedì 16 novembre 2010

Uochi Toki - Cuore Amore Errore Disintegrazione (2010)


Sin dalla sua alba, l'uomo si è posto degli interrogativi che – ad ammetterlo ci si deprime – a distanza di milioni di anni sono rimasti tali, salvo i casi in cui le grandi speculazioni intellettuali (nonché intellettualoidi) hanno abbindolato una grande, enorme percentuale delle unità appartenenti alla razza umana plasmando così un mondo succubo a pochi poteri ben accentrati che impiegano rami periferici con peculiarità nulla più che rappresentative di una libertà di scelta che – manco a dirlo! - altro non è che l'ennesima illusione.
Una citazione a caso:
Milioni di libri scritti su ogni concepibile argomento da tutte queste grandi menti, e alla fine nessuno di loro sa più di me sui grandi misteri della vita. Ho letto Socrate, sapete? Schiappettava i ragazzini greci; che diavolo ha da insegnare a me?
Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e perché siamo, veniamo ed andiamo. Queste non sono domande, ma tormenti che hanno frustrato l'uomo da sempre e l'hanno spinto a credere nelle più bizzarre teorie, nessuna delle quali può essere appurata come vera né falsa. Vivere ed emergere dall'oscurità, risalire verso la coscienza, sia essa pure parziale, di sé e del mondo è una fatica intollerabile che necessita di un supporto esterno, interno, spirituale, parascientifico. Forse da qui è nata la magia, un modo per capire e vivere in simbiosi con gli altri e con il mondo. Ed è proprio la magia, l'essere mago, il contatto significativo che il mago vuole esercitare sul mondo il tema centrale del nuovo disco dei Uochi Toki (che non devo presentare, vero?). C'è in questo un intento esoterico, un'espressione che decanti forze ancestrali pre-umane? No, affatto! Anzi, probabilmente sì, perché per avere un sano contatto con la vita essoterica, con le persone comuni, per dare luogo ad un libero scambio di idee con esse è davvero probabile che l'unico mezzo che dia adito a questo sia di natura esoterica, ciò preclude un indispensabile nutrimento che consenta un'attenta osservazione, rilevazione che trasli l'uomo essoterico ad un livello superiore, financo super-uomo.
Con Cuore Amore Errore Disintegrazione, i Uochi Tochi proseguono la loro strada aperta non già con il precedente (cupo, introspettivo) Libro Audio, ma con l'ottimo La Chiave Del 20, un concept album registrato insieme agli Eterea Postbong Band nell'ormai lontano 2007. Quest'anno hanno raggiunto la vetta, la piena maturità; stupiscono, fanno clamore, fanno pensare. Le liriche di Napo sono eccellenti, originali, quasi rivelatrici, e trascinano in un percorso tortuoso in cui il baluginio della luce solare confonde le forme ed i ruoli e rasserena solo per poi scuotere maggiormente fino a condurre allo stato definitivo: l'astrazione quantica.
Ma non si sottovaluti la base, un lavoro eccezionale non secondo ai testi. Il dj (di cui, non me ne voglia, non non conosco il nome) attinge dai migliori Autechre, dal genere grime, (post-) dubstep e fraziona l'aritmetica come Jackson Pollock.
Il disco è da 10 su 10 e già lo candido tra i migliori (se non IL migliore) dell'anno.
Ma alla fine il dubbio resta: l'uomo omologato e l'uomo indipendente riusciranno mai a trovare un punto d'incontro? La realtà sconfiggerà gli audaci.

Potete apprezzare anche la tracklist:
1. Appena risalito dall'abisso,

2. Mi sveglio da straniero in un luogo mai visto prima, tuttavia,

3. Dato che per me è naturale trovarmi spaesato nei non-luoghi,

4. Mi basta udire delle voci lontane per sentirmi a casa ovunque,

5. Permettendomi artifici spontanei,

6. Gettandomi in ambigue immedesimazioni non richieste ma richieste,

7. Violando le conseguenza che la violazione dei sacri limiti tra due persone comporta...

8. … No, sto sbagliando in qualcosa, il nervoso ed il quieto si alternano freneticamente

9. Dando origine al più incomprensibile dei mali

10. Che mi esaspera fino ad esplodere in realtà molteplici “adesso”.

P.s. Ad onor del giusto, devo evidenziare un errore: l'articolo maschile plurale che precede le parole Uochi Toki non è "i", ma "gli". (Facevo prima a sciverlo in calce che a correggere).

martedì 2 novembre 2010

05111975


Quello che segue è l'estratto di un manoscritto; anche una dedica ai suoi molti Orfani.

Le incomprensioni nacquero sin dallo scambio di informazioni riguardo ai loro interessi: furono schierati da un lato il calcio – ovviamente vissuto da spettatore –, dall'altro la letteratura, il cinema, la musica progressive rock in particolare quella inglese e il nascente (proto-) punk angloamericano, quindi una qualche infarinatura politica/anti-politica e, tanto per chiudere, la pallavolo esercitata su campo. L'imbarazzo provato da chi è stato scoperto a scaccolarsi mentre credeva di non essere guardato cominciò a manifestarsi nell'aria. La ragazza, che nascondeva maliziosamente un ego compiaciuto, propose di prestargli dei libri, tanto per vedere se riusciva a suscitare in lui una qualche sorta di curiosità anche perché, a dirla tutta, desiderava farlo crescere culturalmente abbastanza da poter alimentare il proprio autocompiacimento. Il poi-irrimediabilmente-ecc. fu lieto di accettare. La pedagoga non retribuita tentò di lucidarlo con alcuni testi che presto lui avrebbe dimenticato a) perché avrebbe faticato a seguirli e b) perché in verità – cosa che non le avrebbe mai confessato – annoiato da lessico e sintassi percepiti come troppo articolati (cfr. punto a)), li avrebbe abbandonati molto prima di raggiungere la metà per restituirglieli solo dopo aver atteso un lasso di tempo sufficientemente lungo in modo che un'effettiva lettura da lei sarebbe stata considerata plausibile. Tra i due, quella furba era la ragazza: pur senza menzionare la sua intuizione, non si era certo lasciata prendere in giro dalla puerilità di un insipido quindicenne che aveva farfugliato insensatezze alle domande da lei formulate a proposito dei tomi che le erano appena stati restituiti, perché lei non si sarebbe mai fatta impietosire da un Mi ci sono messo d'impegno, ma non ci ho capito niente, dato che su due/trecento pagine è davvero inverosimile che non una sola frase possa essere compresa da una persona che parli la lingua in cui quelle pagine sono state scritte. Tuttavia, ciò che sancì la netta troncatura, peraltro univoca, tra i due, non fu questo episodio, che a posteriori non designava nulla di così grave, ma una discussione in cui il quindicenne-futuro-impiegato esprimette una mancata deferenza su un avvenimento (un Avvenimento) che l'altra considerava una Tragedia, un Lutto, una Perdita Incolmabile cui l'intero mondo avrebbe dovuto confessare tale e di cui, viceversa, l'intero mondo era da considerarsi fautore. (Dov'è che l'aveva sentito?).
Tre giorni prima che la discussione avesse luogo, il 2 novembre 1975, una donna rinvenne un cadavere sulla spiaggia dell'idroscalo di Ostia. Il cadavere era di Pier Paolo Pasolini. L'aveva scambiato per immondizia, la donna. Così disse, e di questo errore di valutazione il quindicenne, che ascoltava le notizie a lui già note che l'amica gli esponeva con una certa tragicità stonata vagamente riconoscibile in questa qualifica, ne rise pensando a quanto beffarde possano essere le coincidenze: venire violentemente bastonati, investiti dalla propria auto guidata da qualcun altro, morire ed essere scambiati per immondizia nel giorno della commemorazione dei morti è davvero l'esito di un gioco ironico, sghignazzò usando circa questi termini, oltretutto nel giorno del mio compleanno, aggiunse. Che era comico quasi come morire per dissenteria, anche.
L'interlocutrice raggelò, e non solo per l'errata giustapposizione dei termini – in particolare quando diceva «comico»; semmai era «atroce», «umiliante», «evitabile» -; restò immobile e con la bocca impercettibilmente aperta per una certa frazione di tempo riflettendo sulla possibilità di aver travisato, di non aver colto un senso magari celato. I suoi dubbi furono presto spazzati via da un rincaro della dose nel momento in cui l'altro rubò le parole di suo padre per affermare che P.P.P. era un pederasta talmente comunista che anche i comunisti lo schifavano per quanto fosse comunista. Chissà cos'altro avrebbe aggiunto se Pelosi avesse dichiarato la sua versione sin da subito, secondo cui l'intellettuale invocava la madre mentre i suoi aggressori gli spappolavano la faccia e rompevano le ossa per farlo assomigliare quantomeno nella forma all'immondizia che con tanta ostentazione aveva denunciato. La dantesca, dura legge del contrappasso. Non sarebbero mai bastate le sberle che la ragazza aveva avuto voglia di far suonare sulla faccia dell'imberbe, e tanto tempo nessuno lo ha a disposizione. Ebbe quasi un accesso di diplomazia in cui avrebbe evidenziato i punti che suscitavano il suo disaccordo e magari avrebbe potuto approfittare dell'occasione per esporre qualche citazione che, senza dubbio, sarebbe giunta a sostegno al momento opportuno, ma, non avendo pubblico, non lo fece; si limitò a soffocare un insulto, voltarsi e allontanarsi. Le distanze tra i due sarebbero state ripristinate ed estese fino alla privazione del saluto e questo è quanto.


venerdì 1 ottobre 2010

Danilo Arona - L'ombra del dio alato (2003)


Sin da principio non voglio nascondere che pochi libri mi hanno coinvolto come questo di Arona, che già in precedenza mi aveva entusiasmato col successivo, nonché suggestivo romanzo Black Magic Woman, datato 2006. L'ombra del dio alato è invece un saggio tout-court in cui l'autore, avvalendosi dell'interdisciplinarità, rileva una trama unica che sembra collegare strani riti risalenti ad oltre 10 mila anni fa che prevedevano l'uso non specificato di ali appartenenti a grandi volatili (riemerse grazie ad importanti scoperte archeologiche verificatesi intorno agli anni '50) ad alcuni avvenimenti “particolari” che riguardano l'attuale popolazione occupante il pianeta, tutto ruotando attorno alla figura del dio alato che altri non è che Pazuzu, la dispettosa entità che si era indebitamente appropriata del corpo della giovane Regan McNeil (Linda Blair) nel film L'esorcista e che qui funge da fulcro.

«Ormai da molti anni stiamo assistendo a una vasta proliferazione di studi e ricerche su una serie di aspetti misteriosi e irrisolti riguardo il passato dell'umanità. Aspetti che non sempre hanno ricevuto la necessaria attenzione da parte degli ambienti accademici, della scienza cosiddetta “ufficiale” e dell'archeologia tradizionale.»

Con queste parole Arona c'introduce in un mondo, il nostro, che sin dalle prime pagine fatichiamo davvero a riconoscere come tale; la scorrevolezza è tale da confondere leggenda e storia, senza causare troppi problemi relativi alla logica o la veridicità dei fatti. Proprio su questo punto è incentrata la tecnica capace di Arona, merito anche della sua attività giornalistica: per quanto il tutto sia suffragato da una bibliografia archeologica ed esoterica di tutto rispetto, la sua forza sta nella trama quasi (?) romanzata. Criptoarcheologia, clipeologia, esperimenti genetici alle fondamenta della civiltà, piogge sui generis, esperimenti [fanta]scientifici nell'epoca contemporanea, esorcismi, avvistamenti collettivi di creature “sconosciute”; questi sono gli ingredienti di cui sembra andare ghiotto Pazuzu, il demone alato ibridato con rettili cani ed aquile.
Chi non è avvezzo a questi temi, potrebbe trovarsi coinvolto in una lettura seminale ed analizzare la prima delle infinite porte che in seguito avrà voglia di aprire, diffidente o no che sia; chi invece ha già “le mani in pasta”, non troverà grosse novità, ma potrebbe comunque divertirsi scivolando su queste pagine che a tratti profumano di noir.

giovedì 16 settembre 2010

Sofia Coppola - Somewhere (2010)

Preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere... nella vita non c'è una trama!
Groucho Marx

Dimostra sin da principio le sue intenzioni, Sofia. Una Ferrari trasporta il suo guidatore su un percorso anulare per molti giri, più di quanti lo spettatore ne voglia vedere, ed il tutto viene registrato da un'angolazione statica, come morta, anzi inanimata, forse parola-chiave, come quella di un sasso. Devo ammettere che poche volte mi sono annoiato in maniera quasi nevrotica ed ho cominciato a consultare l'ora dopo soli dieci minuti dall'inizio della pellicola (ma probabilmente qui c'entrano anche particolari stati d'animo personali), il che alla fine della proiezione mi ha portato a desumere che fosse «uno dei film più merdosi che abbia mai visto». A Sofia Coppola, ai suoi film, in realtà ci sono affezionato e li ho sempre graditi, anche in frangenti particolarmente vuoti, e questo perché ammiro la sua capacità di armeggiare con la semplicità e l'innocenza – tant'è che se dovesse essere associata ad una tecnica pittorica, quella tecnica sarebbe il pastello.
In verità solo a distanza di molte ore, quando il pensiero si è ritrovato faccia a faccia col telo neuronale del cinema, un senso si è reso leggibile. Potrei quasi affermare che Somewhere è un film che piace (o potrebbe piacere) a posteriori, dopo la fine; è l'estremizzazione, la scrematura, il risultato oltranzista tratto dalla struttura dei suoi precedenti lavori (Lost in traslation in particolare, ma anche Marie Antoinette – a riguardo, si veda questo parere, anche se poco si sposa con le considerazioni qui indicate), e in questo caso abbandona totalmente i decori della trama – ad eccezione dell'inserimento puramente decorativo, appunto, pressoché casuale di un paio di videoclip musicali – ponendoci di fronte ad una realtà talmente «nuda et cruda» e scarna che potrebbe essere rilevata come una qualunque esistenza del mondo reale, in cui la celluloide non è che un lavoro, e in fondo, a dispetto della remunerazione che consente la concessione di vari lussi, neppure granché gratificante.
È un pezzetto irrilevante della vita di Johnny Marco, quello a cui Sofia ci inchioda senza prometterci “intrattenimento” (anzi!), famoso attore hollywoodiano che conduce una vita quasi disegnata sull'asserzione «i soldi non fanno [dubbio dell'autore, o «danno»?] la felicità»: divorziato, milionario (ovviamente in $), guida una Ferrari che odierete da subito, e nei suoi confronti non c'è donna che non si offra carnalmente (ad avallare che è un uomo che non deve chiedere... mai! [cit.]) perché succube del fascino dei belli e famosi (e Ferrari).
Come anticipato, non c'è una trama dominante, si potrebbe quasi definire un film “orizzontale” in quanto non ci sono eventi di particolare rilievo, ma solo le piccole occupazioni quotidiane; proprio queste occupazioni descrivono il personaggio, la sua inerzia, la fragilità emotiva suffragata dalla falsità dei suoi collaboratori (si noti i complimenti sul «bell'aspetto» che gli vengono rivolti quando questo non è attribuibile ad aggettivi positivi). È proprio quest'iniziale assenza della componente idilliaca tipica di Sofia che inizialmente lascia spaesati i suoi aficionados, quando la donna è rappresentata in vesti provocanti, succinte, quasi volgari, “venduta” a chi magari può garantirle un tenore di vita invidiabile mediante una supposta spintarella. Chi ridimensionerà in maniera speculare ed antitetica il quadro generale sarà Cleo, l'adolescente figlia del protagonista, che con la sua innocenza occuperà le ore dell'attore rompendo la routine a cui egli si era abbandonato fino a non ottenere piacere persino dal sesso (si veda la scena in cui si addormenta un attimo prima di dedicarsi ad un cunnilingus).
Per l'aspetto tecnico si può sottolineare una fotografia diametralmente opposta al precedente Marie Antoinette, il gusto si allontana dai colori chiari velati e vitali e viene sostituito da tendenze vintage, se non amatoriali. La regia è sostanzialmente piatta, probabilmente per una sinergia metodista volta ad una finale coerenza di intenti.
Non ho molto gradito il breve scambio avvenuto nell'ascensore tra Johnny e Benicio Del Toro, degno dei cosiddetti cinepanettoni. Non ho gradito soprattutto la presenza di Laura Chiatti, incapace addirittura di doppiare le due frasi assegnatele, ma tant'è.
In definitiva, anche se dopo un'iniziale raccapriccio l'ho rivalutato comprendendo, forse, le intenzioni affatto scialbe, il risultato è mediocre e poco incisivo. Non è certo un film che sarà molto citato in futuro ma, a giudicare anche dai commenti dei miei sconosciuti vicini di poltrona, se siete maschi, o comunque vi piace il sesso debole, e volete vedere un po' di fica senza tante storie di troppo e senza scadere nel brutale porno (quindi approfittate e proponetelo alle vostre fidanzatine!), questo film potrebbe fare al caso vostro. Dosi e sostanze consigliate per l'assunzione: uno virgola cinque litri di caffè.

venerdì 10 settembre 2010

Besnard Lakes - The Besnard Lakes Are The Roaring Night (2010)


Dei Besnard Lakes non so assolutamente nulla. Detto questo, mi pare ovvio che non farò una ricerca su internet per poter scrivere chi sono, da dove vengono, da quanto suonano (anche se mi pare di aver inteso da qualche parte che sia il loro primo album, ma non ne sono assolutamente certo) perché sono dati che i curiosi hanno certamente facoltà di scoprire da soli. Preferisco di gran lunga soffermarmi sulle impressioni che mi hanno mosso.
Questo, miei cari, è un disco che, pur essendo uscito nell'ormai lontano marzo, vive in simbiosi con questa estate che mi sta atterrendo d'afa e toglie il respiro in questo insalubre posto che è la pianura padana (“solo la nebbia...”). Ma torniamo al disco.
Più di una traccia trova analogie col desert-rock, più che per la tecnica che nulla, difatti, con questo ha in comune, per le atmosfere evocate. È impossibile non immaginarsi in una California acida post '70 a bordo di un caravan senza aria condizionata, coi finestrini abbassati, il vento caldo che ti lecca la faccia, le mutande che ti s'incastrano tra le chiappe, il petto nudo, abbronzato, muscoloso (se proprio devi immaginarti, pensati muscoloso), imperlato dal sudore, con al tuo fianco una bionda mezza nuda in hot pants e reggiseno che di tanto in tanto rimette al loro posto gli occhiali da sole che il sudore fa scivolare dal naso. Sei su una highway diretta verso sud, verso il Messico. La strada è spopolata, ai lati il deserto. Il sole alle 15 picchia come Bruce, ma tu hai di che rinfrescarti grazie alla scorta di Desperados che ci hai nel frighetto di questo fottuto camper arrugginito dalle intemperie. Ad un certo punto decidi di fermarti per sgranchirti le gambe, dato che guidi da quattro ore. Sebbene potresti sostare anche tra le due carreggiate, accosti a lato, spegni il motore. Fai appena in tempo a tirare la maniglia della portiera che la bionda già s'è proiettata verso di te e dal suo atteggiamento capisci che vuole farti una pom...
E che cazzo, andate via! Lasciateci un po' di intimità, no?
Io gli strumenti ve li ho consigliati; adesso la storia potete farvela da soli.

P.s. - A dirla tutta, ho poi scoperto che per i calienti canadesi questo è il loro terzo album. Ciao.

martedì 17 agosto 2010

giovedì 8 luglio 2010

Luc Bürgin - Archeologia Eretica (2003)

Circa cinque, se non sei anni fa, su un quaderno segnavo questo titolo con l'intenzione di acquistarlo in seguito. Non saprei dire quale fonte dell'epoca avesse ispirato la mia curiosità nei confronti di questo testo capeggiato da un titolo che, quantomeno mnemonicamente, richiama quelli usati dal fortunato-quanto-risibile Dan Brown; fatto sta che, poco tempo fa, avevo trovato il suddetto libro scontato del 65% su IBS, al che l'ho ordinato. Come dichiarato dalla prima di copertina (graficamente elaborata, presumo, come dimostrazione pratica di esempio da non emulare), intenzione dell'autore è quella di trattare e diffondere argomenti che, a suo dire, riferiscono “scoperte che sconfessano l'archeologia ufficiale”. Ed ecco che, già dall'introduzione, Bürgin adotta un linguaggio quasi messianico:

Dimenticate ciò che vi hanno insegnato a scuola. Rimuovete ciò che vi è stato inculcato. Rifuggite i libri di testo: la storia del nostro passato più remoto non è quella che vi hanno raccontato.

Nonostante le duecento e più pagine, che tradiscono per mezzo dell'uso di un carattere piuttosto grande e dell'inserimento di fotografie (oltretutto non Sempre eclatanti) dei reperti, il libro lo si scorre velocemente, scivolando verso la conclusione con una semplicità eccessiva nell'arco di poche ore; che il target sia costituito da adolescenti smaniosi, casalinghe annoiate o impiegati che necessitino di qualche brivido per poter affrontare dignitosamente la seguente settimana lavorativa? Seppure i reperti menzionati generalmente destano grande interesse anche solo empiricamente, senza voler scomodare ostinatamente la scienza, un'ondata di superficialità pervade le pagine del testo dall'inizio fino all'epilogo, trovando sfogo in una scrittura banale e didascalica, suppongo più per demerito dell'autore che per quello di Fabrizia Fossati, la traduttrice. Come già annunciato, il lettore non si annoia, ma già alla fine del primo capitolo si chiede (o perlomeno dovrebbe): tutto qua? Pagina dopo pagina cresce l'attesa di una rivelazione, una scoperta, un evento – sia esso pure un mattone caduto in testa al giornalista/scrittore – ma tutto viene mitigato da supposizioni che, pur essendo frutti di intuizioni altrui, non trovano né fonte né approfondimento; tutto è campato per aria, come se l'impressione più fantasiosa che è stata suscitata sia palese e non necessiti di riscontro scientifico. Un esempio definitivo è quello del diciassettesimo capitolo, Una rampa di lancio di cinquemila anni fa? Nella provincia cinese di Qinghai è stata ritrovata – chissà quando la prima volta, dato che Bürgin non ce lo riferisce – una strana struttura piramidale, sul Monte Baigong, alta 50-60 metri risalente, in base alle analisi effettuate, a cinquemila anni fa. Riporta Bürgin da un estratto della rivista Spiegel dell'8 luglio 2002: “presenta tre cavità con aperture triangolari e – a quanto pare – contiene tubi dipinti di rosso. Nei pressi sarebbero disseminati rottami arrugginiti in metallo, pietre e tubi dalla forma assai singolare, che penetrano nella montagna e in un vicino lago di acqua salata”. Segue poi uno sproloquio che no fa che ripetere i dati già riportati nella prima parte del capitolo fino ad affondare e scemare nel ritrovamento di piramidi cosparse sull'intero territorio cinese, e di ciò che lascia intendere dell'origine dell'idea che la prima struttura fosse una rampa di lancio non c'è esplicazione. Ma non è questa l'unica formula evasiva adottata dallo scrittore, che spesso scade in accuse e supposizioni degne del gossip di peggior stampo. Bensì la strategia preferita, e più volte ripetuta, è quella della stesura di argomenti riguardanti reperti che “presto” saranno analizzati e daranno risposta alle nostre domande. Un anticipare i tempi, quindi, affinché la conclusione debba mancare inevitabilmente, a prescindere dalla volontà o dallo studio di chi “al momento” ne scrive.
Bürgin, nel suo metodo, non conosce analisi e, pur proponendo argomenti affascinanti per loro stessa natura, riesce a privar loro di qualunque importanza. Più volte, infatti, accenna ad un presunto creazionismo, distante dalla concezione filo-cattolica pur ribadendo che l'uomo sia nato uomo, non scimmia; ma affiancando tale affermazione a nessun assunto, come ad esempio può essere quello sostenuto dagli antichi assiri, è inevitabile che il vigente darwinismo lo tacci di stupidità, anziché di follia. L'uomo che si è introdotto con toni messianici, come di consueto in tutti i dogmi, prontamente è caduto incespicando nei propri piedi.
In definitiva Archeologia Eretica, ad eccezione del quinto capitolo trattato con integrità, è un testo pervaso da futile fantasia che danneggia, anziché supportare, le tesi in quantità e qualità sempre maggiori che sembrano sostenere l'idea secondo cui la genesi e la storia dell'uomo sia differente dalla verità ufficiale. Idee che, se dovessero rivelarsi attendibili, non credo cambierebbero realmente la nostra quotidianità, ma che offrono continuamente spunti che alimentano la fantasia dei curiosi e che stuzzicano l'intelligenza di chi è gonfio della muffa che il mondo copiosamente offre.

sabato 3 luglio 2010

in breve #7 - Gott ist tot

Tante inutili parole sono state pronunciate riguardo Nostradamus, ma il vero profeta è stato Nietzsche.

venerdì 25 giugno 2010

Parole d'altri - Sdrammaturgo; La cicoria ripassata in padella è sopravvalutata

Per ovviare alla mia pigrizia di aggiornamento blog, sindrome che - impietosa - ormai colpisce senza remore molte migliaia di giovani occidentali, mi appresto a coniare un nuovo angolino in cui riportare allegramente scritti altrui che avrei voluto scrivere io, ma che non ho fatto perché sono uno sfigato.
Colui che ho scelto per aprire l'angolino, è il già citato Sdrammaturgo, che trovate in forma estesa qui.

Sono convinto che la Champions League sia stata inventata per evitare che la gente si suicidi.
Mi metto nei panni di chi ha una vita assolutamente insoddisfacente, un lavoro malpagato, un ritardo negli studi, una vita sentimentale disastrosa ed ha fallito il fallibile (li ho indossati nel millenovecentottantatré e non li ho ancora tolti). Ecco, in casi come questi (cioè la maggior parte degli individui in ogni parte del mondo) è quantomai logico e razionale chiedersi: “Perché mi ostino a campare? Non sarebbe più opportuna una sapiente impiccagione?”. Ed è lì che interviene la Champions League. Uno infatti pensa: “Ma che mi ammazzo a fare? Mercoledì c’è la Champions, metti che Messi fa un goal dopo una serpentina, che faccio, me lo perdo?”. Una volta giunto il mercoledì di Champions, è naturale conseguenza riflettere: “Beh, ora che ho visto l’andata, non posso certo ammazzarmi e perdermi il ritorno. Metti che poi Sneijder la piazza nell’angolino dalla distanza o pesca Milito con un lancio da trenta metri”. Di partita in partita, il suicidio continua ad essere rimandato: “Sono arrivato fino a qui, non posso perdermi i quarti di finale. E la semifinale?”. E così via. E neanche dopo la finale uno si ammazza, perché si dice: “Beh, tra pochi mesi comincia la nuova edizione della Champions: nuove squadre, nuove formazioni. Magari saltano fuori abbinamenti e partitoni ancor più avvincenti del solito, se mi ammazzo potrei pentirmene. Va bene, posticipo il suicidio alla prossima riforma delle coppe”.
Il campionato non assolve allo stesso scopo: troppo lungo, la noia dei pareggi, il tedio incomparabile di un’interminabile classifica a punti senza eliminazioni…E partite come Chievo-Livorno fanno venir voglia di essere seguite dall’interno dell’abitacolo di un’autovettura deodorato con monossido di carbonio.
Neppure Mondiali ed Europei sono utili in funzione anti-suicidio. Anzi, sono dannosi: tragicamente brevi e solo una volta ogni due anni, uno fa in tempo a dimenticarsene e disperarsi per l’attesa che lo attenderà. Quindi facile che dopo la finale uno si spara una revolverata nelle orecchie (perché sempre nelle tempie? Nelle orecchie sarebbe più originale. Tanto sempre al cervello arriva. Non c’è niente di peggio della banalità nei suicidi). Specie se in finale c’è arrivata la Germania.
Sì, la Champions League è stata una geniale invenzione salvavita in un’ottica economica. Proviamo infatti a pensare cosa accadrebbe con un cospicuo e sacrosanto aumento del numero dei suicidi. Innanzitutto, un brusco e gigantesco calo della manodopera internazionale. Inoltre, quando uno si toglie la vita, lascia sempre qualche amico o parente nella depressione, e si sa che la depressione è la peggior nemica della produttività. Quando uno è depresso lavora poco e male, il suo rendimento non è più lo stesso, non gli interessa più alcunché, dunque consuma anche molto meno.
Senza la Champions League, quindi, ne beneficerebbero solo le lobby dei becchini, degli psichiatri e dei farmacisti, cosa che agli altri industriali proprio non andrebbe giù.
E poi si dice che i calciatori guadagnino troppo…Voglio dire, salvano delle vite umane! Guadagnano anche troppo poco per quello che fanno – quelli bravi, si capisce. Io ad esempio ho imparato a fare il nodo scorsoio la prima volta che ho visto giocare Iaquinta.
Eh sì, senza la Champions League molte persone prenderebbero sicuramente decisioni più sagge.
Che diamine, la vita è una fatica inutile. Non ci vuole Albert Camus per capire che la vita non ha alcun senso (eccetto quella di Hugh Hefner) – mi rendo conto che un cattolico a questo punto avrebbe bisogno di puntualizzare: “Aspetta: cosa intendi per vita? Quando comincia la vita? E quando finisce la vita? L’embrione è vita?”. E’ bene dunque precisare: considero vita quella che va dalla nascita alla prima serata di Rai Uno.
Ritengo che la vita sia solo un ostacolo alla morte. E la morte è la più valida alternativa al lavoro (e per lavoro intendo anche l’amore. Qualcuno obietterà: “Cazzo c’entra???”. Mi spiego: l’amore è la forma più perfetta di lavoro: richiede un impegno costante e quotidiano, non si viene retribuiti ed alla fine si viene puntualmente licenziati).
Secondo me chi teme la morte è perché non ha lavorato abbastanza.
Avete presente quando la mattina suona la sveglia e si pensa: “Uff, quanto vorrei rimanere a letto un altro po’”? Da morto puoi farlo!
Oltretutto, la morte è anche un’ottima scusa per evitare i pranzi con i parenti (per le feste mondane, invece, una paralisi è più che sufficiente: “Sabato sera ci vieni all’aperitivo in quel locale trendy rock? Suona quella band indie inglese dove tutti hanno le frange e sono ben vestiti, si balla tutta la notte, ci sarà da divertirsi, ci siamo proprio tutti!” “Mi spiace, non posso, sono paralizzato”).
E da morto non hai più a che fare con la prima serata di Rai Uno.
E non sono solo i grandi dolori come i lutti, le malattie, la perdita del grande amore, la prima serata di Rai Uno, a rendere insopportabile la vita. La vita è disseminata di una miriade di minuscole immense sofferenze. Penso ad esempio al dramma di chi vorrebbe ballare la salsa ma non il merengue.
Sapete quale sarebbe una vera sciagura? La donna che ti ha lasciato e di cui hai sempre desiderato il ritorno più di qualsiasi altra cosa al mondo che decide di rimettersi con te la sera della finale della Champions League. A quel punto cosa fai? Come ti comporti? Da una parte c’è tutto ciò di cui hai bisogno per star davvero bene, ma dall’altra parte c’è la donna della tua vita! Ah, no, scusate, ho fatto confusione, volevo dire: da una parte c’è tutto ciò di cui hai bisogno per star davvero bene, ma dall’altra parte c’è la finale di Champions League! Panico.
Oppure se, sempre quella donna senza la quale la tua vita è ridotta a mera svogliata sopravvivenza, ti invita inaspettatamente in un pub per chiarirvi e tentare una riconciliazione e, una volta seduto al tavolo tutto trepidante e commosso, ti accorgi con sgomento che sullo schermo alle sue spalle stanno trasmettendo i più bei goal di Fernando Torres. Terrore. Orrore. Inizi a sudare freddo. Ti ripeti tra te e te forsennatamente ed ossessivamente: “No, no, no. Resisti, non farlo, non farlo”. Tu vorresti dedicarti solo a lei, tu vuoi realmente dedicarti solo a lei, dimostrarle che ha, ha sempre avuto e sempre avrà tutta la tua attenzione e tutte le tue attenzioni, perché lei è tutto per te, è il tuo respiro ed il battito del tuo cuore, è la tua alba ed il tuo tramonto, è il tuo principio e la tua fine; ma qualcosa che trascende inesorabilmente la tua volontà e che non puoi combattere in alcun modo per quanto tu possa sforzarti (e lo fai, cerchi di farlo con tutto te stesso) ti spinge fisiologicamente a distrarti dai suoi occhi lucidi di pianto - che pure ti fanno palpitare come non mai - su quella palla scagliata con potenza e precisione da fuori area che lambisce ossimoricamente delicata l'incrocio dei pali e si insacca meravigliosamente proprio sotto al sette. E proprio mentre lei ti sta urlando addosso che sei rimasto il solito mostro e che ha fatto bene a lasciarti e che non cambierai mai e si alza e ti manda a fanculo e se ne va una volta per tutte, per sempre. Ed ha perfettamente ragione.
Il guaio di nascere uomo è che inscritto nel cromosoma Y hai l’irresistibile impulso di vedere la fine di un’azione. Se un uomo passa con la macchina davanti ad un campetto di periferia dove si sta giocando una partitella senza pretese, piuttosto rischierebbe un incidente stradale pur di non perdersi l’esito dello scambio di passaggi sotto porta in corso.
Mah, comunque, la vita ci pone davanti ogni giorno infiniti interrogativi destinati a restare insoluti. Qualche giorno fa, per esempio, giocando a pallone con due amici in un campetto di quartiere, mi chiedevo: “Perché la gente si fa una famiglia?”.
Cesare Pavese oggi non si ucciderebbe più. Guarderebbe Barcellona-Inter. E prima e dopo penserebbe: “Che vita di merda”. Un po’ anche durante, ma meno.

giovedì 24 giugno 2010

Hot Chip - The Warning (2006)

Aridanghete! Altra recensione audiolesa, in attesa di nuovi scritti. Sto coltivando.

Prendiamo una giornata di merda, una di quelle giornate in cui ti svegli pronto per andare a dormire, con l'umore più che storto e senza che nulla ti faccia presagire qualcosa di buono.
Mettiamo che bevi il caffè: ti andrà di traverso.
Mettiamo che pucci la brioche nel latte di soia: avrai aspettato troppo per tirarla su e si spezzerà cadendo nella tazza spruzzandone il contenuto sul tavolo, sui vestiti e nei tuoi occhi.
È inevitabile, rassegnatevi. In queste giornate non c'è che da sperare di essere risucchiati da un buco nero. Ma la vera tragedia è che questo non accadrà.
Come rimediare, quindi? Come attutire l'impatto con siffatta aurea negativa?
Semplice: ascoltando "The Warning" degli Hot Chip.
Quello di cui scrivo è un disco decisamente mattutino perché non impegnativo (nonostante qualche velo di malinconia) e piuttosto "di atmosfera" (nonostante qualche pezzo moderatamente tamarro). Si tratta di musica elettronica piuttosto pop; ascoltandoli si ha come l'impressione di aver trovato il punto d'incontro tra i Notwist e i Kings of Convenience, con qualche spruzzata di una qualunque (nonché presunta) "indie band" che va di moda su Mtv. L'atmosfera festaiola si amalgama con quella più intimistica senza stonare, senza esagerazioni.
Qualche nota a sfavore, tuttavia, ce l'ho.
Sulla prima traccia, il bridge che media tra le strofe, ricorda fin troppo sfacciatamente l'intro di Born Slippy degli Underworld, ed io non l'ho colto come una semplice citazione, però devo dire che, nel contesto, ci sta.
La seconda traccia fa eco al campionamento di quel famoso pezzo, Music sounds better with you degli Sturdust, ve lo ricordate?
L'intro della sesta traccia, invece - e qua probabilmente sfioro la paranoia -, richiama la parte finale della bellissima I want you (ascoltate dal minuto 6:50) della bellissima Erykah Badu. Ma forse esagero. Sono un complottista, che ci volete fare?
Nel complesso, comunque, resta un disco più che godibile. Un disco dalle 9,30 AM.
Buona colazione.
Ah, occhio alla brioche!

Tracklist
01. Careful
02. And I Was A Boy From School
03. Colours
04. Over And Over
05. (Just Like We) Breakdown
06. Tchaparian
07. Look After Me
08. The Warning
09. Arrest Yourself
10. So Glad To See You
11. No Fit State
12. Won't Wash

venerdì 11 giugno 2010

The Casualties - On the Front Line (2004)

Ancora un ripescaggio dalla produzione pro-Audiolesi. Questa volta è il turno di una sentita critica al manierismo hardcore di bassa lega.

Partiamo da un presupposto: tutti i miei gusti musicali sono nati dall'hardcore punk, quello politicizzato, assolutamente aggressivo e spesso lo-fi.
Detto ciò vi presento un disco per la serie "Bella Cacata". Di chi sto per parlare? Dei Casualties, ovviamente!
I Casualties, che tanto piacciono a quei punkettoni sfegatati dell'ultima ora, quelli che al di sotto dei 140 bpm credono esista solo l'oblio, sono una band newyorkese che suona streetpunk... cioè, così si dice da ormai vent'anni.
Quello che sento io è un hardcore rockandrolleggiante trito e ritrito a cui non solo non si aggiunge nulla di nuovo, ma neppure gli si toglie niente. Io non riesco proprio a spiegarmi come facciano a piacere. La loro unica mossa è stata quella di prendere le sonorità dell'hc ottantone, legarlo alle melodie più tipiche dei '90 e commercializzarlo, pubblicizzarlo, svenderlo.
On the Front Line è un album del 2004, si dice tra i meglio riusciti... pensa te! I testi sono quelli canonici: "fanculo Stato, la guerra è una merda, ribelliamoci, evviva l'anarchia". Cioè, ragazzi, voi volete imporvi così senza un briciolo di individualità e ok, può anche andarmi bene. Però magari cercate anche di motivare quei motti del cazzo ché ormai dopo trent'anni c'hanno triturato i coglioni. Musicalmente, invece, ricordate il Self Titled che i Rancid rilasciarono nel 2000? Ecco, scarnificatelo dall'abilità tecnica e unitelo all'attitudine degli Exploited (altra band su cui ci sarebbe molto da ridire), ma non quelli migliori di Let's Start a War, facciamo di quelli più tendenti alla mediocrità come in Troops of Tomorrow. Bene, così ci siamo! Questo è On the Front Line dei Casualties.
In breve: mentre un motto ragionato racchiude un pensiero ben più articolato, un motto alla Casualties racchiude il concetto secondo cui "vi piscio addosso perché sono punk e c'ho le borchie". Imparate l'umiltà, per dio! Imparate dai Minor Threath, dai Dead Kennedys, dai Vegan Reich.
A tutti gli amanti di questo gruppo voglio ricordare che l'hardcore non è tutto cresta, spillette, chiodo e borchie.
L'hardcore è un ideale vastissimo che pochi gruppi hanno interpretato appieno, è contenuto, solidarietà, rabbia comportata, reazione e ricerca di soluzioni. I Casualties, invece, sono ciò che rimane dell'hc quando l'hai spogliato dalle sue peculiarità.

Tracklist

1. Casualties Army
2. On The Front Line
3. Leaders Of Todays
4. Criminal Class
5. Tomorrow Belongs To Us
6. Unknown Soldier
7. Scarred For Life
8. Static Feedback And Noise
9. Media Control
10. Death Toll
11. Tragedy
12. Brainwashed
13. Sounds From The Streets
14. We Don't Need You

mercoledì 9 giugno 2010

Current 93 - Lucifer Over London (1994)

Secondo appuntamento con una recensione pescata a caso tra quelle già pubblicate per l'Audiopost@.

Oggi si parla di musica esoterica o apocalyptic folk, che dir si voglia.
Scrivere dei Current 93 non è affatto cosa semplice perché, come voi crowleyani certamente saprete, l'architetto del collettivo in questione, ossia David Tibet, porta con sé un bagaglio culturale che trasborda esoterismo e religioni da tutte le fessure. Ma mi farò io carico di questo peso, non perché me ne senta particolarmente capace, piuttosto perché nell'ultimo mese ci sto in fissa a mille.
Ora però cerchiamo di fare un po' di luce sulla questione.
La Corrente 93, da cui Tibet ha deliberatamente preso il nome, è la denominazione che Aleister Crowley dava alla sua dottrina, la quale fondeva satanismo, magia, massoneria, esoterismo, sesso rituale ed occultismo di vario genere. David Tibet, affascinato da tale dottrina, stende testi basati su tali temi occupandosi, a sua volta, di vita, morte e apocalisse (no, stavolta niente miracoli) richiamando di continuo il simbolismo occulto.
Anche dal punto di vista meramente musicale è un personaggio che s'è tenuto sempre attivo. In principio era industrial ("in principio era Pravda: Parola-Verità, Parola-Verità!"), ma si sa che le vie dell'industrial sono infinite; tant'è che presto arrivarono sintesi minimaliste dalla durata considerevole: a tal proposito voglio ricordare In Mestrual Night, un album composto da tre tracce dalla durata aliena di 52 e rotti minuti. Nel 1987, invece, lo stile folk ebbe il sopravvento stillando, forse, la vena più caratteristica ed originale del progetto che nel 1992 promulgò la propria pietra filosofale: Thunder Perfect Mind.
Quello che invece oggi è oggetto di recensione, fu inciso nel 1994 e, come fanno intendere le note di Paranoid dei Black Sabbath sull'intro del primo pezzo, è un disco più rockeggiante ed aggressivo.
Anche questo ep (e chiamiamola ep una registrazione che dura mezzora...!) è composto da una triade, tre fasi di un cambiamento profondo: l'alllontanamento dalla filosofia luciferina; lo smarrimento e l'avvilimento causato dall'assenza di punti di riferimento; l'approccio - forse in senso lato - al cristianesimo esoterico.
Oltre a lasciar trasparire, come già detto, una componente più aggressiva rispetto ai lavori precedenti, Lucifer Over London è anche una transizione particolarmente sofferta in cui vengono descritti scenari impressionanti e talvolta toccanti.
Tra pesci dorati e bambini in decomposizione dalla testa di cavallo, preparatevi ad un viaggio che cambierà il vostro modo di sentire.
Inchinatevi di fronte al genio malefico di David Tibet; amatelo o perite.

P.s. - Giusto in questi giorni ho letto che nell'ultimo album dei Current, David Tibet si è avvalso della collaborazione di un personaggio alquanto insolito, vale a dire Sasha Grey. Chi è Sasha Grey? Digitatene il nome su Google, capirete in fretta. Vi consiglio di visionare anche questo video.


Tracklist

1. Lucifer Over London Parts I & II (7:48)
2. Sad Go Round (5:46)
3. The Seven Seals Are Revealed At The End Of Time As Seven Bows: The Bloodbow, The Pissbow, The Painbow, The Faminebow, The Deathbow, The Angerbow, The Hohohobow (13:40)

martedì 8 giugno 2010

Lovecraft e il danno a lui provocato per sfruttmento di luoghi comuni

Sono uno a cui i luoghi comuni e le frasi fatte hanno sempre suscitato un certo fastidio, soprattutto perché concernono la preclusione di verifiche soggettive ed indipendenti in beneficio di banali giudizi aprioristici. Di luoghi comuni potrei citarne a decine di dozzine, ma ce n'è uno solo che al momento voglio infrangere, vale a dire: "un libro non si giudica dalla copertina".
Per certi versi è vero, una copertina è scindibile dal valore del testo ivi contenuto ma, per quanto sia un'asserzione che su carta detiene una certa dignità, è proprio sullo stesso supporto (ora non più figurativo) che trova riscontro di scelte editoriali che possono compromettere il lavoro sinergico del rapporto copertina/testo.
Esempio di tale malfunzionamento è Tutti i romanzi e i racconti di Howard Phillips Lovecraft.
Il nome di Lovecraft suscita tensioni ataviche che si cristallizzano negli scenari da lui descritti su cui si muovono entità ancestrali capostipiti, precursori o, addirittura, creatori di tutte le specie biologiche presenti sulla terra; un iter fantascientifico che, con il pretesto della scoperta archeologica, accresce la conoscienza fino a stravolgere totalmente la concezione che ha l'uomo della sua natura determinando, così, un orrore puro che, se non provoca la morte, porta alla pazzia.
Ora mi domando: come può una copertina raffigurante un ritratto caricaturistico (quindi comico) dell'autore riproporre l'oscurità propria delle tematiche da egli affrontate? Di sicuro non sfruttando uno sfondo nero!
La Newton Compton è una casa editrice che pubblica scritti di qualità a prezzi contenuti (cosa che non si può dire di tutti), ma nonostante il già citato Tutti i romanzi e tutti i racconti sia offerto a poco meno di 25 euro - prezzo in verità invitante, dato che si tratta dell'intera bibliografia -, dopo averci rimuginato su a lungo, infine optai per Le montagne della follia della stessa casa editrice. La copertina era più adatta.
Gli altri testi di H. P. li comprerò con calma.

P.s. L'ideatore grafico della raccolta lovecraftiana meriterebbe quantomeno una denuncia.

lunedì 7 giugno 2010

Gorgoroth - Incipit Satan (2000)

Ho deciso di riproporre anche sul mio blog le recensioni che nei mesi scorsi ho scritto per Audiolesi (e conto ancora di scriverne di nuove); tra l'altro questa dei Gorgoroth Blogger l'ha anche eliminata... e va be'!

Continuo a cavalcare l'onda old-school black metal varata da xandreax citando in giudizio un'altra band norvegese legata al già segnalato Burzum: i Gorgoroth.
Il black metal, signori miei, è per il metal ciò che l'emo (nell'accezione più attuale del termine) è per l'hardcore, ossia il fratello sfigato che si rinnega perché ritenuto motivo di imbarazzo. Tuttavia, seppur mai mi troverete a recensire i My Chemical Romance, io tendo a prendere le difese di Caino. Non so se in realtà esiste attrito tra il metallaro medio e il black metal, ma le differenze ci sono eccome; mentre il metallaro vanta virtuosismi a go-go e/o velocità fantascientifiche, il metallaro nero non tiene affatto conto della tecnica affinché ne giova il contenuto e anche se suona sedicesimi non offre mai un senso di reale dinamicità. Inoltre il metallaro nero per supportare coerentemente tali tesi le avvalora di un sound prevalentemente rough, quindi, più che ai suoi capostipiti heavy, per attitudine è affine alla concezione dei punks '77.
Considerato il contesto, bisogna ammettere che i Gorgoroth sono un vero e proprio baluardo di questa sorta di movimento. I testi della band non sono mai stati resi pubblici perché gli autori ritengono che il messaggio debba arrivare esclusivamente a chi è pronto ad accoglierlo, quindi da un punto di vista ontologico possono essere considerati dei puristi/fondamentalisti (negli anni '90 l'ex cantante Gaahl - gay, vegetariano, pittore, torturatore freelance - fu anche coinvolto nel caso delle chiese cattoliche incendiate per dolo); dal punto di vista pragmatico, invece, hanno inserito, sia pure timidamente, delle "nuove" influenze derivate dal noise e l'industrial che spiccano in intervalli più che nell'amalgama della composizione.
Per quanto non sia di certo uno dei miei gruppi preferiti, devo ammettere però che Incipit Satan (l'unico loro album che ho ascoltato) me lo concedo volentieri, soprattutto quando non riesco a prendere sonno. Metto le cuffie, mi faccio qualche risata ascoltando gli arrangiamenti incredibilmente divertenti (vedi anche: goffi) e la batteria spesso insicura, e alla quarta o quinta canzone sto già dormendo.
Sulle tracce non ci sono molte cose da annotare - sentito un pezzo black metal, li hai sentiti quasi tutti, fatta eccezione per i progressisti - se non alcune particolarità. Ho trovato molto gradevoli i suddetti intermezzi ambient degni di un film horror (talvolta conditi con consueti versi rovesciati) e soprattutto l'ultimo pezzo, "When love rages wild in my heart", una proposta davvero insolita con una voce che ricorda a tratti la profondità vocale di Ian Curtis, per quanto la canzone pecchi del solito impaccio compositivo. E anche se sollecitano più sorrisi che ansie, senza alcun dubbio a loro spetta il Premio Simpatia.

Tracklist:
1. Incipit Satan 04:33
2. A World to Win 03:43
3. Litani til Satan 04:33
4. Unchain My Heart!!! 04:47
5. An Excerpt of X 05:50
6. Ein Eim av Blod og Helvetesild 03:09
7. Will to Power 04:28
8. When Love Rages Wild in My Heart 05:43

Eufemismi



lunedì 24 maggio 2010

Danni sociali e problemi morali dell'alimentazione - Parte II

Il problema morale

L'epoca che abbiamo definito come epoca d'oro offriva in abbondanza i frutti degli alberi e le erbe che la terra ha fatto crescere e la bocca degli uomini non era imbrattata di sangue. In quei tempi gli uccelli muovevano le loro ali al sicuro nell'aria e la lepre attraversava il campo senza timore. Il pesce non era la vittima innocente dell'uomo. Ogni luogo era libero dal tradimento; non regnava alcuna ingiustizia – tutto era colmo di pace. Nei tempi successivi un portatore del male cominciò a disprezzare e sminuire questo cibo semplice e puro e nella sua vorace follia cominciò a ingoiare cibi basati su cadaveri di animali. Così facendo, aprì la via al male. Ovidio (43 - 18 a. C.)

Assunto, nel precedente paragrafo, che l'alimentazione a base di carne sia inutile e talvolta anche dannosa per l'organismo umano e che tale consumo sia un massacro quotidiano di creature senzienti, quindi soggette a paura e dolore, è essenziale capire come ciò avvenga.
Proprio come accadeva secoli fa nelle colonie (e tuttavia ancora oggi accade per mano delle corporations che sfruttano la cosiddetta forza-lavoro locale di paesi in via sviluppo, quindi ancora poveri), dove gli europei vessavano i popoli indigeni (africani, popolazioni sud e centroamericane, ecc.) sfruttandoli mediante speculazioni razziste, oggi l'animale viene letteralmente annichilito da un sistema di vita estraneo ad ogni legge naturale e poi utilizzato come merce o prodotto di vario consumo: cibo, vestiario (pellicce, giacche, scarpe, ecc.), accessori (borse, bracciali, occhiali, ecc.), divertimento (zoo, circo), compagnia domestica. La pubblicità che insinua tali prodotti nel mercato – mi riferisco in particolare ai prodotti alimentari – quasi sempre tende a vantarsi di come gli animali, prima di entrare nel piatto del consumatore, abbiano condotto una vita sana e in libertà. Ma tali affermazioni non trovano affatto riscontro sulle quantità “industriali” di carne esposte in qualunque macelleria o supermercato del nostro emisfero perché, difatti, per produrre quantità industriali è necessario disporre di industrie che effettuino allevamenti intensivi.
Premesso che non intendo in alcun modo prendere le difese degli allevamenti tradizionali o biologici (come vengono ipocritamente riproposti oggi, cambiando nomenclatura per ingannare perfidamente il consumatore), vediamo cosa accade in un allevamento intensivo, ché, ovviamente, è la forma di allevamento che produce la maggiore quantità delle carni in commercio. Innanzitutto l'animale allevato in maniera intensiva non ha mai visto un pascolo ma vive in box sovraffollati o chiuso in una gabbia in cui lo spazio vitale è ridotto al minimo indispensabile (ossia lo spazio che consente di stare in piedi o sdraiato: altri movimenti sono impraticabili) ed è, quasi sempre, stazionato sul cemento (caso che suscita ulteriori disagi); spesso viene alimentato forzatamente con mangime mescolato a sostanze chimiche come appetizzanti ed ormoni che velocizzino la crescita, nonché antibiotici che limitino le infezioni, altrimenti facilmente riscontrabili, a causa della scarsa igiene dell'ambiente in cui vive; la sua vita può avere una durata da un minimo di sei mesi circa ad un massimo di ventiquattro; per risparmiare tempo, viene sgozzato o macellato (nel caso dei pulcini) quando è ancora cosciente. Questo è un quadro generale; in realtà ogni specie animale viene trattata in maniera differente a seconda del prodotto finale da ottenere (carni rosse, carni bianche, latte, uova, ecc.), ma sempre con la stessa ingiustificabile crudeltà. [Per approfondimenti, suggerisco la lettura di La realtà negli allevamenti intensivi, articolo ben dettagliato che rivela crudeltà persino maggiori.]
Ora prendiamo, come esempio, una ricca signora che ama decorare il suo corpo con gioielli e pietre preziose: raramente questa signora si chiede da dove arrivi quel diamante, raramente si interessa dell'operaio che, scavando, è morto nelle miniere per ottenere in cambio uno stipendio da infami; magari, in caso venga a conoscenza di tale prassi, storce il naso augurandosi di sgomberare in fretta la mente da simili pensieri per poter godere con coscienza nuovamente “vergine” della bellezza della pietra. Allo stesso modo chi si gusta la sua bella bistecca non riflette quasi mai sull'origine del suo pasto ed ignora, per lo più, la violenza occultata e camuffata dalla pubblicità, fuggendo così dalle proprie responsabilità in favore di una colpevole inconsapevolezza. Tuttavia qui non si ritiene crimine il solo maltrattamento, ma si accusa aprioristicamente colui che chiude in gabbia un essere nato libero e si considera che la società umana debba essere obbligata a liberare gli animali affinché si reintegrino nella loro società originale che per diritto naturale gli appartiene; un diritto che l'uomo, con la sua deviazione dominatrice, non ha rispettato invadendo e stuprando le società differenti dalla sua. Le conseguenze di questo atteggiamento, che pretende di poter piegare la natura alle sue voglie, non ha determinato solo sofferenza e paura nel bestiame e problemi di salute per la specie umana, ma anche altre inevitabili piaghe che sono i risultati di una serie di azioni indiscutibilmente sbagliate che danneggiano l'intero pianeta.


L'impatto sull'ambiente

Alla sua alba, l'uomo contemplava e temeva la natura vivendo con essa un rapporto più o meno simbiotico, poi l'ingegno lo portò a modificare il territorio su cui si stazionava e cominciò a prelevare materiali (pietre, marmi, ecc.) dalla terra per donargli una nuova forma e costruire case ed edifici; in seguito, dalla prima rivoluzione industriale in avanti, l'uomo s'illuse di poter dominare sulla natura e col tempo giunse a sottrarre alla terra anche metalli e combustibili fossili a ritmi vertiginosi, rovesciando poi i rifiuti liquidi nelle acque e sotterrando quelli solidi. Già durante il Romanticismo le menti più acute si resero conto dell'imparzialità, talvolta anche violenta, della natura che col vento, i terremoti, le lunghe piogge o le siccità prolungate potrebbe estinguere la razza umana e lasciare che il tempo la dimentichi.
Oggi più che mai questo timore dovrebbe far tremare l'intera popolazione mondiale, eppure l'abitudinarietà insita nello stile di vita attuale, così radicato nelle popolazioni dei nostri paesi ormai postindustriali, non trova governo e non trova legge che davvero si preoccupi di proporre serie alternative per tentare di riassestare la situazione globale. Ma ciò non deve stupire, in quanto la nostra economia è totalmente basata sul consumismo, ossia: prendi, usa, getta. Anche se recentemente può sembrare che questo problema sia stato preso in considerazione, in verità tutto appare come una farsa. Purtroppo questo è un dramma dalle mille sfaccettature e le cose da dire in proposito potrebbero essere infinite quindi, per brevità, mi attengo al tema principale dello sfruttamento animale illustrando un solo esempio, cioè quello del rapporto carta/deforestazione. È da circa un decennio che il riciclaggio della carta è stato largamente diffuso (quantomeno in Italia) perché, a quanto è stato sempre sostenuto, la produzione di questo articolo richiede eccessive quantità di alberi da abbattere, elemento che costituirebbe un grave danno per l'ecosistema. Ma resta un confronto da fare che riguarda un altro elemento che non solo la pubblicità ma, più generalmente, tutti i media tendono a celare: l'elevato tasso di inquinamento che gli allevamenti producono.

Ogni anno scompaiono 17 milioni di ettari di foreste tropicali. L'allevamento intensivo non ne è la sola causa, ma sicuramente gioca un ruolo primario: nella foresta Amazzonica l'88% dei terreni disboscati è stato adibito a pascolo e circa il 70 % delle zone disboscate del Costa Rica e del Panama sono state trasformate in pascoli. A partire dal 1960, in Brasile, Bolivia, Colombia, America Centrale sono stati bruciati o rasi al suolo decine di milioni di ettari di foresta, oltre un quarto dell'intera estensione delle foreste centroamericane, per far posto a pascoli per bovini. Per dare un'idea delle dimensioni del problema, si pensi che ogni hamburger importato dall'America Centrale comporta l'abbattimento e la trasformazione a pascolo di sei metri quadrati di foresta.
Paradossalmente, questa terra non è affatto adatta al pascolo: nell'ecosistema tropicale lo strato superficiale del suolo contiene poco nutrimento, ed è molto sottile e fragile. Dopo pochi anni di pascolo il suolo diventa sterile, e gli allevatori passano ad abbattere un'altra regione di foresta. Gli alberi abbattuti non vengono commercializzati, risulta più conveniente bruciarli sul posto.
[Fonte]

Ma, ovviamente, questo non è che uno dei molti danni che causa l'allevamento. Bisogna considerare anche che la coltivazione dei campi destinati all'allevamento prevede l'utilizzo di prodotti chimici (fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi) che inquinano il suolo, basti pensare che tra i paesi che più ne abusano ritroviamo Giappone, Gran Bretagna e Germania in cui, mediamente, ne vengono usati 300 kg per ogni ettaro. Inoltre se prendiamo atto del fatto che una sola mucca da latte arrivi a bere fino a 200 litri d'acqua al giorno, 50 litri un bovino o cavallo, 20 litri un maiale e 10 una pecora, moltiplicando i litri bevuti singolarmente per il numero medio di animali presenti in un allevamento, otteniamo delle cifre decisamente alte o perfino spaventose, considerando tutti gli allevamenti, industriali e non, presenti sul pianeta. Difatti, non di rado, quando un allevamento si sposta verso nuove terre da sfruttare lascia fiumi trasformati in ruscelli e terreni desertificati dalla sovrapproduzione vegetale e dalle deiezioni e liquami che non funzionano come concime perché gli animali, mal nutriti, producono rifiuti a basso contenuto organico che, penetrando nel terreno, vanno ad inquinare le falde acquifere.
Devastando la terra ettaro dopo ettaro, per quanti anni ancora possiamo restare in bilico e sperare che tutto si risolva da sé?

[Per approfondimenti, consiglio la lettura di due articoli che affrontano lo stesso problema da differenti punti di vista: Proposta: tassiamo il consumo di carne; Se il pianeta muore di bistecca.]


Qui i paragrafi precedenti.

giovedì 29 aprile 2010

in breve #6 - caro diario...

Mi domandavo perché?
Se un vegetariano sceglie di non infliggere inutile dolore al prossimo, allora perché i cosiddetti "onnivori" pretendono sempre delle giustificazioni?

Sempre - confusamente - tuo.

martedì 23 marzo 2010

Danni sociali e problemi morali dell'alimentazione - Parte I

Introduzione

Quando si parla di alimentazione e genuinità è purtroppo necessario farlo con calma e tenacia perché quando ci si scontra con le abitudini vigenti, la tradizione, gli usi e i costumi comuni è inevitabile ritrovarsi coinvolti in uno scontro verbale. Se da un punto di vista psicologico tali reazioni sono scontate e prevedibili, da un punto di vista pragmatico i risultati sono davvero sconfortanti. Del resto, come si suole dire, "l'abitudine è dura a morire", ed ecco che anche le persone verso cui si nutre un'opinione più che positiva esternano il mostro che - generato dal "sonno della ragione" - giace in loro.
Detto ciò, voglio subito precisare che nel testo seguente non inserirò molti dati scientifici o medici a sostegno della causa vegetariana/vegana, a. perché le mie teorie non possiedono alcun valore in merito, b. perché ci sono professionisti con credenziali ben più attendibili che già lo hanno fatto e che continuano a farlo; bensì argomenterò questa scelta di vita sotto un profilo meramente opinionista. Inoltre il mio non vuole essere un attacco generale e qualunquista diretto a tutti i consumatori di carne, ma confido nella speranza in cui, leggendo le mie parole, qualcuno possa convertirsi, per così dire, come capitò a me alcuni anni fa leggendo le pagine del blog Un cane non abbaia a caso.


Superiorità ed alimentazione

Che l'essere umano sia una creatura "superiore" a tutte le altre specie animali è palese. Ma superiore in cosa? E cos'è la superiorità?
La superiorità della specie umana è di tipo intellettuale, affermazione che trova riscontro nell'enormità numerica delle connessioni sinaptiche registrate dagli scienziati – "[…] noi abbiamo 10 alla 11° cellule [cerebrali], ciascuna ha circa 10.000 connessioni, quindi 10 alla 15° connessioni” (Boncinelli, 2001) –, vale a dire un numero enorme di operazioni possibili che, seppur limitate, supera nettamente le facoltà di cui qualunque altra specie animale attualmente disponga.
Preso atto di ciò, è interessante capire come l'uomo abbia sfruttato le sue facoltà nel peggiore dei modi possibili a discapito dei più deboli sfruttando, abusando, uccidendo loro senza nessuna necessità; ma innanzitutto è utile introdurre un'ulteriore precisazione, cioè la grave colpa di cui l'uomo si è reso artefice col pretesto della sua “superiorità”: ossia lo specismo.
Lo specismo si fonda nel triste contesto della presunzione, della speculazione, dell'illusione e del sadismo che è madre fondante anche di sessismo e razzismo: il razzismo fonda la sua ideologia faziosa sul presupposto dell'appartenenza ad una razza superiore che non ha come unica differenza il colore della pelle, ma anche facoltà mentali maggiori, bellezza fisica superiore, nonché la benevolenza divina dalla sua parte, quindi le altre razze che differiscono da quella “prescelta” sono viste come minaccia alla propria superiorità di razza laddove si verifichino fornicazioni interrazziali che comprometterebbero la genetica favorevole; alla stessa maniera il sessismo prevede la predominanza di un sesso per meriti di origine “naturale” o per volontà divina, difatti molte sono le religioni – ed in particolare quelle monoteiste – che considerano la donna subdola e tentatrice, che quindi necessariamente deve essere assoggettata dall'uomo ed esercitare il proprio ruolo di manutentrice casalinga e bambinaia rinunciando ad un'emancipazione che non le spetta e all'indipendenza. Alla stregua di tali atteggiamenti nei confronti dell'altro è considerabile (ed è da considerare) lo specismo, secondo cui l'uomo è dominatore e gli animali sono schiavi utili alla compagnia, all'aiuto per la manodopera di lavori pesanti e al nutrimento di esso.
Adesso prendiamo atto di un altro fattore, cioè dell'inesattezza dell'idea di alimentazione naturale dell'uomo. Nonostante la Chiesa sembri ancora sostenere le tesi del creazionismo, tutti ormai siamo a conoscenza del fatto che l'uomo sia l'evoluzione di una particolare specie di scimmia e che, attualmente, la differenza genetica che corre tra la nostra specie e quella dello scimpanzé è pari circa al 2%. Se tutte le scimmie hanno un'alimentazione prevalentemente frugivora, cioè consumano soprattutto frutta e semi (fatta eccezione per i tempi di carestia in cui, per sopravvivere alla scarsità di cibo, si adattano alla caccia), come mai diamo per scontato il fatto che l'uomo sia onnivoro per natura? Per rispondere a tali quesiti alcuni studiosi hanno annotato le differenze fisiche che distinguono carnivori, onnivori e frugivori.

Carnivori: struttura fisica predatoria, saliva e urina acida, lingua ruvida, mascelle per lacerare e mordere, intestino corto tre volte il proprio tronco per eliminare la carne velocemente, placenta zoniforme, stomaco semplice, secrezione gastrica fortemente acida per digerire abbondanti proteine.
Onnivori: quattro zampe, coda, incisivi sviluppati, saliva ed urina acida, fondo dello stomaco arrotondato, intestino lungo otto volte il tronco.
Frugivori: struttura fisica non offensiva, pollice della mano opponibile adatto a raccogliere semi e frutti, canini poco sviluppati, denti adatti a triturare cibi duri, saliva ed urina alcalina, numerose ghiandole salivari, lingua liscia, intestino lungo circa dodici volte il tronco, stomaco con duodeno, secrezione gastrica poco acida.
[Fonte]

Il fatto che l'uomo nel corso dei millenni si sia adattato al consumo sistematico della carne non giustifica comunque l'abuso che, altrettanto sistematicamente, concretizza ogni giorno massacrando inutilmente centinaia di migliaia di animali. Oggi, più che nei secoli scorsi, sappiamo con certezza che la carne non è indispensabile alla sopravvivenza dell'uomo; e non solo, sappiamo per certo anche che essa è causa di molti mali anche gravi e di inestetismi (vedi il gozzo) che attaccano il nostro organismo quando se ne verifica un eccessivo consumo perché il nostro apparato digestivo non è adatto a smaltire i grassi e le sostanze dannose che contiene. Abbiamo forse dimenticato che l'alimentazione non è un vizio ma un bisogno? E perché dovremmo continuare a non rispettare le altre forme di vita pur essendo coscienti della futilità del nostro sistema comportamentale?
Ammettiamo solo per ipotesi che, data la sua particolare intelligenza, l'uomo sia più importante di tutte le altre specie ed abbia il potere di fare per loro il buono e cattivo tempo: un adulto che massacra di botte un bambino ostenta la superiorità della sua forza o commette un grave crimine? un maschio che violenta una donna concretizza le sue pulsioni sessuali avvalorate dalla forza fisica o è un immorale e pericoloso stupratore? un ragazzino che schernisce un coetaneo con handicap mentali dimostra la superiorità della sua intelligenza o è un vigliacco da allontanare?
Perché allora dovremmo considerare normale ciò che avviene nei macelli e non dovremmo fare il possibile affinché questi vengano banditi ed ogni razza animale protetta? Prima di prendere la forma di una bistecca, quel pezzo di carne che riempie il piatto apparteneva ad un animale senziente, che provava paura, dolore, e che nel terrore e sotto atroci torture e sofferenze è morto. Ogni animale, dal mammifero, al pesce, all'insetto, ha una sua vita da vivere ed il confinare, il recintare, il torturare, l'ammazzare dell'uomo è un'immoralità che non deve più essere ammessa.


Qui i paragrafi seguenti.

domenica 7 marzo 2010

la rubrica della domenica #5

Siete condannati a morte nel vostro quieto vivere.



Una sola frase che ben esplicita concetti che necessitano molte parole per essere compresi, se a doverli comprendere è la medio-piccola borghesia.

venerdì 26 febbraio 2010

cinque mesi pesi peggio, cinque mesi fa



Non c'è null'altro da dire, almeno non per me.
Ma leggete le parole di chi è coinvolto in prima persona.

domenica 21 febbraio 2010

la rubrica della domenica #4

A chi dice: "sì, adoro Woody Allen... soprattutto il primo, quello comico".



Quanto siete prevedibili, fasulli ed intellettualoidi.

lunedì 15 febbraio 2010

Marie Antoinette, un dilemma della celluloide

Di recente ho guardato Marie Antoinette di Sofia Coppola (dite quel che vi pare... per me è proprio fica!). E per carità, il film l'ho trovato tutto sommato gradevole, anche se noioso a tratti. La fotografia luminosa, prevalentemente poco contrastata e ricca di colori dalle tonalità pastello, immerge lo spettatore in un mondo delicato ed innocente anche quando un'Antonietta allupata si porta in camera un soldato svedese con cui ha flirtato spudoratamente, sotto al naso di una decina di testimoni oculari, nel rifugio (vedi anche "villa di campagna") regalatogli dal marito re Luigi XVI. Tuttavia non c'è malizia neppure nel tradimento, neanche nella mania del gioco d'azzardo; per tutto il film assistiamo, scena dopo scena, alla vita di una ricca ragazzina alle prese con le avventure offerte dall'ultimo modello di scarpe e dalle pettinature eccessivamente alte degnamente interpretata dalla non-bella-in-senso-universale-ma-comunque-assolutamente-fica Kristen Dunst, gia presente in Il giardino delle vergini suicide.
Dio mio (per dire, eh!), io non ci credo che possa esistere un film così tanto vuoto di contenuti. Ho provato a cercare un senso più profondo ed ho analizzato in particolare due possibilità:

1. Sofia voleva evidenziare il menefreghismo degli aristocratici a danno della popolazione che rischiava letteralmente di morire di fame per l'aumento del prezzo del pane, causato dall'inflazione che colpì la Francia, in seguito alle discutibili scelte di politica estera sostenute da un ingenuo, incapace ed infantile re.

2. Sofia voleva evidenziare un destino crudele che aveva colpito due giovani ignari, fortunati sì perché viveno nel lusso più sfrenato, ma condannati ad un destino infausto scaturito da una precoce morte di Luigi XV.

Niente, non c'è verso. Nessuna delle due ipotesi regge: nel primo caso la teoria è risibile in quanto Sofia il popolo non se l'è filato neppure di striscio e, l'unica volta che è apparso, è stato incomprensibilmente rappresentato come un'orda di barbari spietati assetati di sangue; la seconda teoria è invece lontanissima dal senso reale del film perché, per tutta la sua durata, i personaggi non fanno altro che partecipare a feste, scopare, ubriacarsi, giocare d'azzardo, considerando anche che la storia finisce (fin troppo frettolosamente, quasi troncata nel mezzo di uno scambio di frasi) prima del processo e dell'impiccagione dei regnanti, quindi la tragicità è prossima allo zero.
L'avete visto The strangers? Altra pellicola priva di qualunque senso che ha l'unico scopo (indubbiamente raggiunto) di far restare teso lo spettatore lungo l'intera sua durata e mostrare una crudeltà immotivata, ma dal risultato affatto gratuito.
È forse questa l'ottica giusta da seguire per giudicare appropriatamente Marie Antoinette. Il suo fine è quello di trascinare lo spettatore in un mondo poco più che adolescienziale ma senza demenzialità in eccesso, come Chagall dipingeva soggetti apparentemente infantili per scappare dagli orrori del suo tempo.
In definitiva, nonostante alcune scelte discutibili e un montaggio a tratti confuso nella primissima parte del lungometraggio, il fruitore ha la possibilità di appartenere ad un mondo caratterizzato dalla frivolezza di cui la sfarzosa aristocrazia della Francia immediatamente pre-rivoluzionaria si fa portavoce.
E questo è tutto, forse.

venerdì 12 febbraio 2010

mercoledì 27 gennaio 2010

lunedì 18 gennaio 2010

in breve #4 - come rovinarsi la vita in tre semplici mosse

Passo 1
Nasci. Poi pazienta; vedrai che i successivi passi perverranno con atavico meccanismo senza farsi attendere a lungo.

(Aforisma di chiara matrice nerorgasmiana.)

mercoledì 13 gennaio 2010

VenaViola - 360 muse (2007)

Articolo pubblicato su Audio_lesi e qui riportato a scopo meramente pubblicitario in favore dei VenaViola.


Ci sono delle persone a cui la musica ha rovinato la vita. Sì sì, proprio così! Persone a cui la musica ha provocato manie ed ossessioni che prima non avevano e che forse mai avrebbero avuto, se non fossero incappati in questo mondo di matematica, letteratura e rumorismi.
Su di me, poi, si accanisce oltremodo. A questo punto potrei raccontarvi di come alle 4 di mattina, aspettando un sonno che non arriva, penso quale melodia si addica ad un 5/4, ma non lo farò. Piuttosto voglio annotare di come ieri, ascoltando i VenaViola, sono stato assalito da un dubbio: "in quanti li avranno ascoltati e/o quanti li conoscono?". Chiaramente, un modo concreto e verosimile di ottenere tale risposta non esiste. Tuttavia ho penseto bene di controllare il profilo del gruppo su Last.fm (un sito che crea necessità che prima non avevi, ma pur sempre uno dei migliori mai concepiti), così ho letto che hanno 24 ascoltatori per 98 ascolti. Inaccettabile, soprattutto se si pensa che la metà degli ascolti sono miei.
I VenaViola sono un gruppo del casertano che si discosta molto dalla tipica scena underground maccheronica: non fanno punk, né hip hop, niente noise, e nemmanco grind. Bensì trip hop, genere alquanto insolito per noi italiani.
Siccome non voglio scoraggiarne l'ascolto, parto col lato amaro per poi lasciarvi col dolce sul palato. Quindi c'è da dire che non sempre splendono di luce propria e che spesso c'è quella sensazione di "già sentito" che - fateci caso - riporta ai (o agli? Che casino mettere l'articolo davanti ai nomi in inglese!) Slowdive. Ma ciò che fanno lo fanno bene ed in realtà, inserire caratteristiche dream pop che sanciscono l'allontanamento dalla modalità imperante del trip hop fatto à la Massive Attack o Portishead, non è neppure un fatto così negativo.
Ma la vera bellezza di questo album lo si trova in 360 Muse e Zanzare, peraltro uniche tracce con liriche in italiano. Le canzoni sono praticamente recitate, ma recitate davvero, dato che le interpreta un attore teatrale ingaggiato dalla band per l'occasione. State pensando ai Massimo Volume, lo so. Ma quà vi volevo! Perché, per una delle rare volte, ad ascoltarli i Massimo Volume non ti vengono affatto in mente, come invece può succedere con i Frammenti o i Dresda (comunque tanto di cappello). I testi sono a dir poco spiazzanti e l'atmosfera musicale richiama un non so che di metafisico. Considerate, inoltre, che questo è il loro primo lavoro, quindi direi che il risultato è davvero eccellente ed entusiasmante.
Ma basta cincischiare. Ascoltare per credere!
Il link che vi lascio vi collega a Punk4Free, il sito a cui avevano rilasciato l'album liberamente scaricabile.

Postilla: Colgo l'occasione per scoraggiare i gruppi italiani a cantare in inglese, un abitudine che hanno anche gruppi di rilievo (e di tutto rispetto) come Fine Before You Came, Yuppie Flu, One Dimensinal Man e via discoreggiando. Lo facevano anche i Negazione? E certo! Se in Italia non se li filava quasi nessuno e il loro pubblico era prevalentemente olandese, un linguaggio comune per farsi capire dovevano pur cercarlo.

Tracklist

1. The Word Freedom
2. Lightless World
3. 360 Muse
4. T.A.V.O.R.
5. Touched By The Wind
6. My Sweettely Coming
7. Zanzare