Prima di bruciare vivo il geniale e profondo Vanini, gli strapparono la lingua, perché egli, con essa, aveva bestemmiato Dio. Confesso che, quando leggo simili cose, mi vien voglia di bestemmiare questo Dio.
Arthur Schopenhauer

lunedì 14 febbraio 2011

Mitochondrion – Parasignosis (2011) [Reprise]


Ostinarsi a voler inquadrare un gruppo musicale in determinati generi è una cosa tanto inutile quanto sciocca. Questo lo so. Anzi, sono il primo a dirlo, ma sono il primo anche a tradirmi. Sì, perché con iTunes, sotto la voce “genere”, dispenso tag ad ogni singolo gruppo spesso (molto spesso, in verità) anche multiple separando con una virgola le une dalle altre e talvolta, non sapendo appioppare un genere ad alcune bands, fuggo le asperità chiedendo asilo a Last.fm, anche se non sempre è di vero aiuto. Che volete farci... come per ogni altra arte, quella della musica è anche questo. Quantomeno per i maniaci. Se volete farvi un'idea di cosa sto parlando, mi trovo dunque costretto a specificare che Parasignosis è un mix tra death e black metal che giova, qua e là, di qualche spruzzata grind.
Il disco è massiccio, i ritmi serrati, il missaggio quasi claustrofobico. Come ogni metallaro tendenzialmente adulatore nei confronti del sovrannaturale (non necessariamente nell'accezione positiva del termine – e il trittico introduttivo “Pestilentiam Intus Vocamus, Voluntatem Absolvimus” può ben documentarlo), i latinismi nei titoli delle tracce giocano in difesa, tanto per adottare una terminologia calcistica, preservando la tradizione del genere. Ciò che suscita una reale e più significativa attenzione, però, è l'attacco: il consueto intro/verso/ritornello ce lo possiamo dimenticare perché ogni pezzo è in continua evoluzione, i riff si accavallano, la velocità varia continuamente da veloce a velocissimo per rallentare solo in poche occasioni accuratamente create, episodici arpeggi/tappeto quasi impercettibili dilatano i tempi fino a varcare anche la soglia dei 10 minuti.
Aperta parentesi. Negli ultimi 15 anni il metal ha appeso borchie, pantaloni di pelle e chiodo al chiodo [ahaha, una battuta scontata come questa non potevo farmela sfuggire!] per evolversi e sfondare le porte della ridondanza di matrice '80 addentrandosi in confini sempre meno individuabili. Se pensiamo a gruppi quali Neurosis, Pelican, Isis, può subito apparirci chiara la differenza che corre tra questa strana e polivalente frangia di esistenzialisti e gli ubriaconi festaioli à la Iron Maiden, Judas Priest (buargh!), Motley Crue (BUARGHHH!!!). Tutto questo è stato possibile grazie ai Tool prima – che peraltro non apprezzo moltissimo -, e grazie a chi da questi ha ricevuto l'input giusto poi. Da qui il metal ha ottenuto un sound più profondo, più robusto, qualcosa che, invece di farti sanguinare le orecchie con gli acuti, fa tremare la terra sotto ai piedi con le onde basse; l'accanimento verso velocità e ostentazione virtuosistica si è affievolito lasciando più spazio alla sperimentazione e alla composizione; la raffinatezza intellettuale, anche se spesso ossessionata dalle visioni apocalittiche care ad un certo genere di folk di cui tempo fa parlai, ha soppiantato la rudezza fine a sé stessa. Un discorso a parte merita il metal che ha vissuto in simbiosi con l'hardcore instaurando con quest'ultimo uno scambio reciproco di attitudini partendo dai Metallica del 1983, passando per gli Slayer e definitivamente scosso dai Napalm Death (laudati siano). Chiusa parentesi.
Su tutti, spiccano i pezzi Tetravirulence (terzo atto della trilogia pestilenziale) e, nomen album, Parasignosis. Chiaramente, non siamo di fronte ad un disco epocale, bensì ad un prodotto di molto buona qualità anche da un punto di vista tecnico. Tra l'altro se il cantato growling fosse stato suino un solo punto in più, tipo 2 Minuta Dreka, l'avrei cestinato senza esitazione alcuna, ma ancora siamo nell'ambito della decenza. A questo punto c'è da aggiungere un'ultima cosa: solo Burzum e i suoi discepoli giocano il ruolo di irriducibili per difetto di loro stessa natura, ma anche nel metal puramente estremo (quindi non parlo degli esperimenti di Amesoeurs o Nachtmystium) si sta muovendo qualcosa verso direzioni meno canoniche. Se prendiamo atto di questo, allora non ci resta che tenere le orecchie ancora più tese e cominciare col non farsi scappare questa piccola perla.
Cthulhu save the metal!

Tracklist
01. Plague Evockation (pestilentiam Intus Vocamus, Voluntatem Absolvimus Part I),
02. Lex Ego Exitium (pestilentiam Intus Vocamus, Voluntatem Absolvimus Part Ii)
03. Tetravirulence (pestilentiam Intus Vocamus, Voluntatem Absolvimus Part Iii)
04. Trials
05. Rift/apex
06. Parasignosis
07. Banishment (undecaphosphoric)
08. Kathenotheism
09. –
10. -
11. Ambient Outro

martedì 8 febbraio 2011

Mitochondrion – Parasignosis (2011)


«Pochi giorni fa abbiamo parlato del mitocondrio, quindi riassumiamo le proprietà di questo organulo per introdurre l'argomento di oggi ché, nella maniera in cui poi vedremo, ad esso è legato.
«Come abbiamo esaminato, il mitocondrio è un organulo che può essere lungo da 1 a 4 micron (µm) e può misurare un diametro che varia da 0,2 ad 1 micron; si presenta con forma a fagiolo ed è sito nel citoplasma che circonda il nucleo delle cellule animali; è preposto alla produzione di energia e svolge la respirazione cellulare, quindi ne regolarizza il ciclo e sviluppa calore. Tuttavia, vi avevo già detto che il tema di oggi non sarebbe stato questo, pertanto non ci interessa rivedere nei dettagli la sua funzione – la quale, dopo la scorsa lezione, sono certo voi tutti conosciate. Oggi, invece, vedremo cosa il mitocondrio ha da raccontarci.
«Partiamo dal 1987, anno in cui i genetisti dell'Università di Berkeley Ca Allan Wilson e Mark Stoneking resero pubblici in sincronia con la dottoressa dell'Università delle Hawaii Rebecca Cann i risultati delle loro ricerche sul DNA mitocondriale. Furono analizzate 147 donne appartenenti a razze differenti ed ubicate in regioni geograficamente molto distanti tra loro, in modo da campionare l'intera popolazione mondiale; secondo gli assunti di questi ricercatori, ciascun individuo eredita i mitocondri esclusivamente dalla linea femminile e il DNA mitocondriale di ogni soggetto analizzato dimostrerebbe che tutta l'umanità contemporanea discende da un'unica donna (poi definita Eva mitocondriale) vissuta circa 150.000 anni fa e che la filogenia riteneva essere collocata in Sudafrica. Come era lecito aspettarsi, nel mondo accademico si creò una divergenza più o meno netta tra chi denigrava i promulgatori della Eve Connection e chi invece li acclamava.
«A distanza di qualche lustro, altri ricercatori suffragarono ed ampliarono questa teoria. Nell'ottobre del 1999 Himla Soodyall e Trefor Jenkins, entrambi scienziati dell'Università di Johannesburg, analizzando campioni genetici prelevati dal popolo del Khoisan (il più antico gruppo autoctono sudafricano), rinvennero le tracce dell'Eva mitocondriale. Nel dicembre del 2000, invece, Ulf Gyllesten dell'Università di Uppsala irrobustì ulteriormente le precedenti tesi dell'Eve Connection dirigendo una ricerca molto accurata e pubblicata sulla rivista scientifica Nature; fu esaminata la configurazione dell'intera sequenza di DNA mitocondriale di cinquantatré persone appartenenti a diverse etnie dei cinque continenti ed emerse che l'origine africana dell'Homo Sapiens fosse palesata da quattro linee ereditarie del DNA mitocondriale, di cui le tre principali sarebbero originarie dell'Africa subsahariana e la quarta, meno rilevante, di derivazione sia africana che non. Per giunta, si riscontrò che la matrilinearità mitocondriale fosse molto più varia nell'Africa nera rispetto a quella della popolazione degli altri continenti. Questo, se dovessi approfondire un certo aspetto dell'argomento che ora non voglio affrontare, potrebbe spiegare perché la maggior parte della popolazione accetta una condizione sociale che non si può definire esattamente “ottimale”. Ma adesso siamo nel campo della mera speculazione, dunque passiamo oltre.
«Cosa emerge da questo? Emerge che, se la teoria dell'Eva mitocondriale fosse esatta, la razza umana che, tra i 100.000 e i 200.000 anni fa, uscì dall'Africa per occupare il resto del mondo annientò le altre specie di ominidi ed umani che ebbero la sfortuna di trovarsi sulla strada di questa nuova stirpe, incluso l'uomo di Neanderthal che, per un un certo periodo, fu erroneamente considerato antenato dell'Homo sapiens. Se questa osservazione dovesse sembrarvi eccessiva, vorrei ricordarvi come gli europei hanno annientato quasi del tutto i cosiddetti “indiani d'America” dal momento in cui hanno invaso i territori dove i nativi erano stazionati.
«Un altro aspetto della questione lo dobbiamo affrontare esaminando – o, per meglio dire, ri-esaminando – l'evoluzionismo darwiniano. È circa dal 1871 (anno in cui Darwin pubblicò L'origine dell'uomo) che è ufficialmente riconosciuta la nostra discendenza (Homo sapiens sapiens) dalle scimmie primordiali; questo è avvenuto perché ci si è sempre affidati, spesso in maniera pedissequa, a quanto Darwin affermava nel suo libro. Ciò non significa che il fondatore dell'evoluzionismo fosse fuori rotta, bensì che fosse il capostipite, il conduttore di ricerche seminali che, usate come fondamento, avrebbero poi dovuto avvicinare ad una verità sempre più solida ed esplicativa. Tuttavia, a causa di alcuni suoi seguaci trovatisi in errore, ancora oggi viene insegnato a nome di Darwin che l'uomo discende dalle scimmie senza soffermarsi su quel dato che lo stesso ricercatore non poté diffondere perché non riuscì a decodificare: l'enigma di ciò che egli definì “anello mancante”, il quale fino a che non fosse stato risolto era ben conscio di non poter considerare conclusa l'indagine sulla genesi della specie.
«È un problema che ancora oggi non è stato circoscritto, nondimeno alcune ipotesi sull'evoluzione sono state escluse con argomentazioni alquanto convincenti. A questo proposito si possono citare, ad esempio, alcune scoperte archeologiche di rilevanza pari a quelle scientifiche fino ad ora viste. Nel 1857, nella valle di Neanderthal, nei pressi di Düsseldorf, fu rinvenuto lo scheletro di un ominide dalla posizione non ancora eretta, la fronte bassa, la mascelle sporgenti e la corporatura robusta. Fu definito, nomen omen, uomo di Neanderthal, e fu la razza di ominidi maggiormente diffusa nel Paleolitico. In seguito ad altri ritrovamenti in Europa, Asia ed Africa la loro origine fu collocata cronologicamente in un epoca antecedente al 70.000 a.C. e si ritenne che fossero il risultato di un graduale processo evolutivo scaturito, a partire dal 300.000 a.C., da una primitiva forma di Homo erectus.
«Appena undici anni dopo, in Francia, a Cro-Magnon, furono recuperati i primi resti di Homo sapiens: alti, eretti, con una scatola cranica più ampia e diversamente strutturata rispetto a quella dei Neanderthal, gli uomini di Cro-Magnon vivevano in una società più avanzata e possedevano uno spirito intellettuale maggiormente accentuato, come si evince dalle loro espressioni artistiche, dai vestiti e dallo stile di vita da essi condotto. Anche se intorno al 35.000 a.C. pare che l'Homo sapiens e quello di Neanderthal si siano incrociati, nel luglio 1997 Svante Pääbo e la sua equipe dell'Università di Monaco riuscirono ad estrarre il DNA da un frammento osseo di un Neanderthal, le cui analisi fecero cadere l'ipotesi dell'ibridazione tra le specie e rivelarono una differenza genetica così importante che, se davvero fosse esistito un antenato ancestrale comune, era talmente lontano da essere un dato stimato ormai marginale.
«L'ufficiale quadro evoluzionistico era già stato minato sette mesi prima, quando sull'isola di Giava furono portati alla luce dei teschi vecchi di circa 40.000 anni che possedevano i connotati dell'Homo erectus che, fino a quel momento, si credeva estinto da almeno 200.000 anni.
«Eccoci, dunque, al cuore della questione: se l'Homo erectus e l'uomo di Neanderthal hanno convissuto 40.000 anni fa e il Neanderthal, a sua volta, con l'Homo sapiens 35.000 anni fa, si può desumere che ciascuno di essi non è l'evoluzione dell'altro ma, anzi, una forma separata come lo è la tigre dal lupo.
«Tra il 1911 e il 1972 in Tanzania, Kenya e Sudafrica vennero esumati i resti di antichi ominidi non compatibili con le tradizionali conoscenze dell'evoluzione, dunque la loro provenienza fu trascurata. Malgrado ciò, nel 1974, l'archeologo Donald Johanson dell'Università di Chicago scoprì in Etiopia, ad Hadar, un gruppo di ossa appartenenti ad un primate femmina destinato a diventare celebre col nome Lucy. Successivamente vennero portati alla luce i resti di altri tredici esemplari che, insieme a Lucy, vennero fatti risalire a ben 3,5 milioni di anni a.C. e presero il nome di “Prima Famiglia”; poco distante dal luogo del ritrovamento, furono individuati alcuni utensili di pietra ed impronte risalenti allo stesso periodo. La parte interessante è che, vista la loro forma, le impronte non sembravano appartenere ad un ominide qualunque: arcata plantare elevata, talloni arrotondati, avampiedi pronunciati ed alluce allungato le caratterizzavano e distinguevano dalle altre razze preistoriche in cui, fino ad allora, ci si era imbattuti. Come sia possibile che oltre 3 milioni di anni fa fosse esistita una specie più evoluta del più recente uomo di Neanderthal è tutto da verificare, ma, procedendo per esclusione, soprattutto grazie alle informazioni rivelate dal mitocondrio, possiamo affermare con una certa attendibilità che ci siamo quantomeno dislocati dall'erronea interpretazione divulgata dai seguaci di Darwin.
«Ho insinuato abbastanza dubbi? Avete domande? ...Tu. Tu coi capelli lunghi. Prego.»
«Ma... questo non è il corso di Storia Moderna e Contemporanea di Growling ad Oltranza?»


Spunti e dati sono stati tratti per la maggior parte da:
L'ombra del dio alato di Danilo Arona
Le misteriose origini dei re del Graal di Laurence Gardner.