L'epoca che abbiamo definito come epoca d'oro offriva in abbondanza i frutti degli alberi e le erbe che la terra ha fatto crescere e la bocca degli uomini non era imbrattata di sangue. In quei tempi gli uccelli muovevano le loro ali al sicuro nell'aria e la lepre attraversava il campo senza timore. Il pesce non era la vittima innocente dell'uomo. Ogni luogo era libero dal tradimento; non regnava alcuna ingiustizia – tutto era colmo di pace. Nei tempi successivi un portatore del male cominciò a disprezzare e sminuire questo cibo semplice e puro e nella sua vorace follia cominciò a ingoiare cibi basati su cadaveri di animali. Così facendo, aprì la via al male. Ovidio (43 - 18 a. C.)
Assunto, nel precedente paragrafo, che l'alimentazione a base di carne sia inutile e talvolta anche dannosa per l'organismo umano e che tale consumo sia un massacro quotidiano di creature senzienti, quindi soggette a paura e dolore, è essenziale capire come ciò avvenga.
Proprio come accadeva secoli fa nelle colonie (e tuttavia ancora oggi accade per mano delle corporations che sfruttano la cosiddetta forza-lavoro locale di paesi in via sviluppo, quindi ancora poveri), dove gli europei vessavano i popoli indigeni (africani, popolazioni sud e centroamericane, ecc.) sfruttandoli mediante speculazioni razziste, oggi l'animale viene letteralmente annichilito da un sistema di vita estraneo ad ogni legge naturale e poi utilizzato come merce o prodotto di vario consumo: cibo, vestiario (pellicce, giacche, scarpe, ecc.), accessori (borse, bracciali, occhiali, ecc.), divertimento (zoo, circo), compagnia domestica. La pubblicità che insinua tali prodotti nel mercato – mi riferisco in particolare ai prodotti alimentari – quasi sempre tende a vantarsi di come gli animali, prima di entrare nel piatto del consumatore, abbiano condotto una vita sana e in libertà. Ma tali affermazioni non trovano affatto riscontro sulle quantità “industriali” di carne esposte in qualunque macelleria o supermercato del nostro emisfero perché, difatti, per produrre quantità industriali è necessario disporre di industrie che effettuino allevamenti intensivi.
Premesso che non intendo in alcun modo prendere le difese degli allevamenti tradizionali o biologici (come vengono ipocritamente riproposti oggi, cambiando nomenclatura per ingannare perfidamente il consumatore), vediamo cosa accade in un allevamento intensivo, ché, ovviamente, è la forma di allevamento che produce la maggiore quantità delle carni in commercio. Innanzitutto l'animale allevato in maniera intensiva non ha mai visto un pascolo ma vive in box sovraffollati o chiuso in una gabbia in cui lo spazio vitale è ridotto al minimo indispensabile (ossia lo spazio che consente di stare in piedi o sdraiato: altri movimenti sono impraticabili) ed è, quasi sempre, stazionato sul cemento (caso che suscita ulteriori disagi); spesso viene alimentato forzatamente con mangime mescolato a sostanze chimiche come appetizzanti ed ormoni che velocizzino la crescita, nonché antibiotici che limitino le infezioni, altrimenti facilmente riscontrabili, a causa della scarsa igiene dell'ambiente in cui vive; la sua vita può avere una durata da un minimo di sei mesi circa ad un massimo di ventiquattro; per risparmiare tempo, viene sgozzato o macellato (nel caso dei pulcini) quando è ancora cosciente. Questo è un quadro generale; in realtà ogni specie animale viene trattata in maniera differente a seconda del prodotto finale da ottenere (carni rosse, carni bianche, latte, uova, ecc.), ma sempre con la stessa ingiustificabile crudeltà. [Per approfondimenti, suggerisco la lettura di La realtà negli allevamenti intensivi, articolo ben dettagliato che rivela crudeltà persino maggiori.]
Ora prendiamo, come esempio, una ricca signora che ama decorare il suo corpo con gioielli e pietre preziose: raramente questa signora si chiede da dove arrivi quel diamante, raramente si interessa dell'operaio che, scavando, è morto nelle miniere per ottenere in cambio uno stipendio da infami; magari, in caso venga a conoscenza di tale prassi, storce il naso augurandosi di sgomberare in fretta la mente da simili pensieri per poter godere con coscienza nuovamente “vergine” della bellezza della pietra. Allo stesso modo chi si gusta la sua bella bistecca non riflette quasi mai sull'origine del suo pasto ed ignora, per lo più, la violenza occultata e camuffata dalla pubblicità, fuggendo così dalle proprie responsabilità in favore di una colpevole inconsapevolezza. Tuttavia qui non si ritiene crimine il solo maltrattamento, ma si accusa aprioristicamente colui che chiude in gabbia un essere nato libero e si considera che la società umana debba essere obbligata a liberare gli animali affinché si reintegrino nella loro società originale che per diritto naturale gli appartiene; un diritto che l'uomo, con la sua deviazione dominatrice, non ha rispettato invadendo e stuprando le società differenti dalla sua. Le conseguenze di questo atteggiamento, che pretende di poter piegare la natura alle sue voglie, non ha determinato solo sofferenza e paura nel bestiame e problemi di salute per la specie umana, ma anche altre inevitabili piaghe che sono i risultati di una serie di azioni indiscutibilmente sbagliate che danneggiano l'intero pianeta.
L'impatto sull'ambiente
Alla sua alba, l'uomo contemplava e temeva la natura vivendo con essa un rapporto più o meno simbiotico, poi l'ingegno lo portò a modificare il territorio su cui si stazionava e cominciò a prelevare materiali (pietre, marmi, ecc.) dalla terra per donargli una nuova forma e costruire case ed edifici; in seguito, dalla prima rivoluzione industriale in avanti, l'uomo s'illuse di poter dominare sulla natura e col tempo giunse a sottrarre alla terra anche metalli e combustibili fossili a ritmi vertiginosi, rovesciando poi i rifiuti liquidi nelle acque e sotterrando quelli solidi. Già durante il Romanticismo le menti più acute si resero conto dell'imparzialità, talvolta anche violenta, della natura che col vento, i terremoti, le lunghe piogge o le siccità prolungate potrebbe estinguere la razza umana e lasciare che il tempo la dimentichi.
Oggi più che mai questo timore dovrebbe far tremare l'intera popolazione mondiale, eppure l'abitudinarietà insita nello stile di vita attuale, così radicato nelle popolazioni dei nostri paesi ormai postindustriali, non trova governo e non trova legge che davvero si preoccupi di proporre serie alternative per tentare di riassestare la situazione globale. Ma ciò non deve stupire, in quanto la nostra economia è totalmente basata sul consumismo, ossia: prendi, usa, getta. Anche se recentemente può sembrare che questo problema sia stato preso in considerazione, in verità tutto appare come una farsa. Purtroppo questo è un dramma dalle mille sfaccettature e le cose da dire in proposito potrebbero essere infinite quindi, per brevità, mi attengo al tema principale dello sfruttamento animale illustrando un solo esempio, cioè quello del rapporto carta/deforestazione. È da circa un decennio che il riciclaggio della carta è stato largamente diffuso (quantomeno in Italia) perché, a quanto è stato sempre sostenuto, la produzione di questo articolo richiede eccessive quantità di alberi da abbattere, elemento che costituirebbe un grave danno per l'ecosistema. Ma resta un confronto da fare che riguarda un altro elemento che non solo la pubblicità ma, più generalmente, tutti i media tendono a celare: l'elevato tasso di inquinamento che gli allevamenti producono.
Ogni anno scompaiono 17 milioni di ettari di foreste tropicali. L'allevamento intensivo non ne è la sola causa, ma sicuramente gioca un ruolo primario: nella foresta Amazzonica l'88% dei terreni disboscati è stato adibito a pascolo e circa il 70 % delle zone disboscate del Costa Rica e del Panama sono state trasformate in pascoli. A partire dal 1960, in Brasile, Bolivia, Colombia, America Centrale sono stati bruciati o rasi al suolo decine di milioni di ettari di foresta, oltre un quarto dell'intera estensione delle foreste centroamericane, per far posto a pascoli per bovini. Per dare un'idea delle dimensioni del problema, si pensi che ogni hamburger importato dall'America Centrale comporta l'abbattimento e la trasformazione a pascolo di sei metri quadrati di foresta.
Paradossalmente, questa terra non è affatto adatta al pascolo: nell'ecosistema tropicale lo strato superficiale del suolo contiene poco nutrimento, ed è molto sottile e fragile. Dopo pochi anni di pascolo il suolo diventa sterile, e gli allevatori passano ad abbattere un'altra regione di foresta. Gli alberi abbattuti non vengono commercializzati, risulta più conveniente bruciarli sul posto.
[Fonte]
Ma, ovviamente, questo non è che uno dei molti danni che causa l'allevamento. Bisogna considerare anche che la coltivazione dei campi destinati all'allevamento prevede l'utilizzo di prodotti chimici (fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi) che inquinano il suolo, basti pensare che tra i paesi che più ne abusano ritroviamo Giappone, Gran Bretagna e Germania in cui, mediamente, ne vengono usati 300 kg per ogni ettaro. Inoltre se prendiamo atto del fatto che una sola mucca da latte arrivi a bere fino a 200 litri d'acqua al giorno, 50 litri un bovino o cavallo, 20 litri un maiale e 10 una pecora, moltiplicando i litri bevuti singolarmente per il numero medio di animali presenti in un allevamento, otteniamo delle cifre decisamente alte o perfino spaventose, considerando tutti gli allevamenti, industriali e non, presenti sul pianeta. Difatti, non di rado, quando un allevamento si sposta verso nuove terre da sfruttare lascia fiumi trasformati in ruscelli e terreni desertificati dalla sovrapproduzione vegetale e dalle deiezioni e liquami che non funzionano come concime perché gli animali, mal nutriti, producono rifiuti a basso contenuto organico che, penetrando nel terreno, vanno ad inquinare le falde acquifere.
Devastando la terra ettaro dopo ettaro, per quanti anni ancora possiamo restare in bilico e sperare che tutto si risolva da sé?
[Per approfondimenti, consiglio la lettura di due articoli che affrontano lo stesso problema da differenti punti di vista: Proposta: tassiamo il consumo di carne; Se il pianeta muore di bistecca.]
Qui i paragrafi precedenti.
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