Prima di bruciare vivo il geniale e profondo Vanini, gli strapparono la lingua, perché egli, con essa, aveva bestemmiato Dio. Confesso che, quando leggo simili cose, mi vien voglia di bestemmiare questo Dio.
Arthur Schopenhauer

martedì 16 agosto 2011

La lotta delle creature imperfette contro divinità inclini al fallimento


Nella recente storia ci fu un singolare episodio di cui l'umanità fu testimone e lasciò documentazioni, come a voler garantire un riscontro futuro che convalidasse con prove scritte la veridicità che un semplice racconto tramandato oralmente avrebbe potuto non avere. Da quanto insolito fosse stato un simile evento, gli fu conferito persino un appellativo: l'anno senza estate.
Nell'inverno tra il 1815 e il 1816, pur rigido nelle zone maggiormente interessate dalla seguente irregolarità, non furono registrate anomalie degne di nota; con l'avvento della primavera, i ghiacci cominciarono a sciogliersi e le piogge sostituirono le nevicate che per mesi avevano intirizzito gli appezzamenti secondo i processi naturali, ma proprio quando l'allungarsi delle giornate iniziò a favorire l'innalzamento delle temperature, che avrebbe garantito il consueto raccolto (il quale ancora sanciva una determinante fonte economica dell'epoca), avvenne l'inaspettato: nei primi giorni di giugno, in tutto il Nord Europa e nell'America settentrionale, l'inverno sembrò ridestarsi bruscamente abbattendo su queste zone inarrestabili piogge e venti furiosi. In questo inverno acerbamente redivivo, nuove gelate e tempeste di neve distrussero i germogli dei nascenti frutti e le coltivazioni dei contadini, per giunta depauperati dalla conseguente morte del bestiame; le temperature, che variavano da un massimo di cinque gradi diurni fino a scendere sotto lo zero durante la notte, favorirono, invece, il diffondersi di malattie respiratorie e gastrointestinali fino a provocare un'emergenza sanitaria cui imperversò soprattutto tra Asia e Medio Oriente in una pandemia colerica. Ad un'iniziale situazione di stupore collettivo – vanificato a distanza di molti lustri, quando si cominciò a comprendere che le eruzioni vulcaniche del Soufrière (Isola di Saint Vincent, Caraibi, 1812), del Mayon (Filippine, 1814) e del Tambora (Isola di Sumbawa, Indonesia, 1815), le cui ceneri addensatesi nell'aria avevano ridotto notevolmente il passaggio dei raggi solari, furono la causa delle anomalie climatiche riscontrate –, seguì una crisi economica che, nelle cittadine maggiormente colpite, riunì nelle strade gruppi di rivoltosi mossi da una furente fame.

Tutt'altre, invece, furono le preoccupazioni che, nell'estate di quello stesso anno, intricarono quattro vacanzieri stazionatisi in Svizzera: Lord George G. Byron e il suo segretario John W. Polidori, Percy B. Shelley e la futura moglie, già madre per la seconda volta, Mary W. Godwin. Dopo aver stretto amicizia, i quattro, annoiati da una «estate umida e sgradevole» e sobillati dalla letteratura gotica della quale in villa Diodati, presso Ginevra, furono avidi fruitori, iniziarono tra loro una sorta di sfida a chi creasse la storia più terrificante. Da questo gioco tra letterati furono originate due creature, innovative ed archetipiche, che a distanza di due secoli conservano ancora una certa popolarità: Byron redasse The Burial, storia successivamente edita col titolo A Fragment e ripresa nel 1819 da Polidori nel racconto The Vampire; la Godwin, meglio conosciuta come Mary Shelley (nome acquisito dal coniuge), creò le vicende relative al mostro di Frankenstein. Proprio quest'ultimo, nonostante la stesura dallo stile incerto – poi rivisto nella terza edizione edita nel 1831 –, fu un soggetto rivoluzionario mediante cui l'autrice introdusse argomenti inediti ispirata sia dalle importanti novità a cui la scienza stava approcciando, sia dalla propria acutezza innescata da letture quali Lost Paradise di John Milton, le teorie di Erasmus Darwin (precursore dell'evoluzionismo diffuso dal nipote Charles), il pensiero fortemente libertario del padre William Godwin e, come palesò già nel sottotitolo, il mito di Prometeo. Non si deve però dimenticare che nel 1816 siamo nella piena ispirazione del Romanticismo (fine XVIII-inizio XIX sec.) che, contrapponendosi al metodo eccessivamente analitico ed asettico nei confronti del mondo dell'idea illuminista, resta “vittima” delle proprie passioni senza reticenze; ma non solo, perché vede nel mondo, nella natura quasi una minaccia incombente poiché, da un momento all'altro, essa può annientare con la violenza degli agenti atmosferici la civiltà che con tanta fatica l'uomo ha eretto. Tuttavia, l'idea romantica di radice mitteleuropea non nutre alcun astio nei confronti del creato, bensì un timoroso, ossequioso rispetto. Non sono rari, infatti, i momenti in cui il Dott. Frankenstein si immerge nella natura per sancire un momentaneo distacco dalla vita sociale che tante ansie in lui ha prodotto; e ancora meno rari, se non esclusivi, sono i periodi che la sua creatura trascorre nei boschi, unico ambiente in cui ben riesce a destreggiarsi, per fuggire dal panico che tra le persone nasce in sua presenza. Ma la creatura, il mostro, come sovente viene definito, proprio come i bambini, nasce con animo casto; animo, però, a cui il corpo non è armonizzato, diversamente plasmato in maniera sostanziale rispetto alla forma dell'essere umano (il colore della pelle, le dimensioni, ecc.).

Il terrore del brutto che permea il romanzo di Mary Shelley è anche il terrore della diversità di quell'individuo a cui, di fatto, nessuno dà occasione di dimostrare la propria cordialità, pur gioendo del suo aiuto fino a che sia prestato in maniera anonima (cfr. Capitolo XII del romanzo Frankenstein ovvero il Prometeo moderno); esattamente in questo consiste il parallelismo con il mito di Prometeo, il titano benefattore che riportò agli umani il fuoco di cui Zeus li aveva privati e che, per questo, subì un'atroce punizione: fu incatenato ad una colonna e durante il giorno un'aquila gli mangiava il fegato che durante la notte sarebbe ricresciuto in modo che la stessa azione si ripetesse continuamente. È comunque diverso l'epilogo condiviso dai due soggetti, perché nessun Eracle libererà il Mostro dai suoi supplizi e nessun Zeus preferirà una riappacificazione con esso, ma tutti lo allontaneranno fino a spingerlo ad odiare il suo creatore che non ha saputo/voluto accudirlo, istruirlo ed inserirlo nel mondo. Non è difficile, a questo punto, scorgere un accenno polemico che accosta, con il pretesto della generazione scientifica, la procreazione sessuale a quella divina.
Quando l'uomo di scienza suppone di aver raggiunto una certa profondità intellettuale ed empirica (soprattutto grazie alle sperimentazioni e gli approfondimenti del galvanismo), ritiene di essere ormai totalmente scisso dagli impulsi animali soggetti, consciamente o meno, alla lotta per la sopravvivenza; dunque l'umano tenta la propria traslazione evolutiva da mortale a divinità (quindi immortale) passando prima dal concepimento di una nuova vita generata secondo regole da egli stesso stabilite, autosufficienti, non vincolate alla comune fecondazione sessuale – la quale essa stessa è da reputarsi alla stregua di un tentativo di immortalità, se si considera una specie come un singolo individuo che si perpetua per evitare la propria scomparsa. Il demiurgo in fase empiristica, però, riconoscendo nella propria sperimentazione un'evidente inadeguatezza alla conformità diffusa, l'abbandona, fugge da essa fallendo così il tentativo di incarnare un creatore più partecipe e sensibile di quel dio che ha abbandonato l'uomo al suo destino. Probabilmente leggere una diatriba contro la religiosità non è un'indiscrezione; è indubbio che Mary, nella sua formazione letteraria, subì l'influenza sia del padre agnostico William, che quella del marito ateo Percy il quale, riprendendo le argomentazioni appunto di William Godwin, nel 1811 diffuse un opuscolo, La necessità dell'ateismo, che gli costò addirittura l'espulsione dall'università. Oltretutto, il Mostro stesso, durante la lettura di Lost Paradise di J. Milton, tende ad identificarsi con Lucifero che, scacciato malamente dal Paradiso, dà adito ad un'ostilità eterna verso il suo dominatore. E cosa sarebbe l'ateismo se non la sete più estrema di libertà e indipendenza? E come adempiere tale sete se non fronteggiando il creatore/despota?

Per questo il Mostro, dopo essere sceso a patti col Dott. Frankenstein, il quale ha trasgredito l'accordo secondo cui avrebbe dovuto creare una compagna fatta ad immagine del primo, scatenerà la sua vendetta eliminando fisicamente ogni persona che sia sentimentalmente legata a colui che ha proclamato primo nemico. Infatti, se il Lucifero di Milton afferma che sia «Meglio regnare all'Inferno che servire in Paradiso», il mostro di Frankenstein sceglie di causare dolore al prossimo anziché soffrire esclusivamente del proprio. Quindi, quando si occuperà di assassinare il piccolo William Frankenstein, non si limiterà solo a consumare l'omicidio, ma preleverà un ciondolo dal corpo del bambino per depositarlo nelle tasche dell'ignara Justine, la balia che accudisce William, quando, la notte stessa del delitto, la troverà addormentata in un granaio; saranno poi le domestiche di casa Frankenstein a trovare l'oggetto in questione in possesso della giovane e non esiteranno a denunciarla alla polizia provocandone l'arresto da cui scaturirà l'esecuzione capitale. Quando il Mostro svelerà al dottore l'attuazione del suo subdolo piano, legittimerà la propria azione asserendo: «Il delitto, che avevo commesso perché sono privato di tutto ciò che lei [la bella Justine, N.d.R.] potrebbe darmi, lei lo avrebbe scontato. Il crimine in lei aveva origine; fosse sua anche la punizione!». È questo il fulcro della complessa psicologia del Mostro, divenuto massacratore in quanto ha dovuto reprimere la bontà di cui era colmo e che, proprio a causa degli impulsi dettatigli da quest'ultima, si toglierà infine la vita per non dispensare altri dolori nel mondo.
Alla fine nessuno è redento, non il Creatore, non la Creatura; e neppure l'autrice, che vedrà accadere a lei stessa le disgrazie che si erano abbattute sullo scienziato del suo romanzo, come se lo spirito del Mostro le avesse aleggiato attorno e si fosse vendicato della sua stessa nascita – sia pure solo letteraria – lasciando Mary orfana dei suoi più importanti affetti. Forse la linea che separa l'immaginazione dalla realtà è più sottile di quanto siamo disposti a credere e le intuizioni pervenuteci dal Romanticismo meriterebbero maggior riguardo.

Un chiarimento in breve
Il parallelismo con il mito di Prometeo è, a ragione, diffusamente attribuito alla figura dello scienziato; infatti tale mito fu reinterpretato e rielaborato da Ovidio nel suo Metamorfosi, il quale fece di Prometeo colui che dalla creta plasmò la razza umana. Al contrario, non ho mai considerato pertinente l'associazione del primo Prometeo (quello greco, di cui sopra) con Victor von Frankenstein, in quanto entrambi vivono sì tragedie, ma di diverso carattere.
Tuttavia, il fascino del titano ribelle alle prese con atroci peripezie è innegabile, dunque, anche a costo di scadere in errate esegesi o goffaggini ontologiche, ho preferito confrontare il Prometeo greco col mostro di Mary Shelley.
Del resto in origine questo testo era l'introduzione ad un mio manoscritto, quindi un po' di licenza poetica me la son concessa. Ciò può spiegare anche perché una sorta di recensione debba apparire tanto romanzata.

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